Ho conosciuto Sebastiana Papa a Orgosolo, nel 1998, in occasione della sua mostra intitolata Il femminile di Dio, che allora avevo proposto all'amministrazione comunale guidata da una sindaca giovane e in gamba (in quegli anni lavoravo lì come direttrice della biblioteca e responsabile dell'area dei servizi culturali). L'idea mi venne quando scoprii che anche il paese barbaricino era stato attraversato dalla ricercatrice-fotografa romana sin dal 1966, quando vi arrivò per la prima volta – giovane, curiosa, silenziosa – con la sua Leyca. Così alcune delle fotografie scattate all'epoca fecero il giro del mondo, con un libro e una mostra inaugurata da Sonia Gandhi nel 1995, e acquisite dal museo d'arte contemporanea di New Delhi. Forse chi ha visto l'esposizione da me curata (o conosce il catalogo) ricorderà l'immagine del funerale a Orgosolo accanto a quella delle donne ritratte a Praga nel 1969 al corteo funebre di Jan Palach.
Ecco, fu proprio con quel lavoro che Sebastiana ritornò a Orgosolo, confermando e consolidando la simpatia e l'affetto per la gente. Non è facile, dato il legame personale nato allora e coltivato sino alla fine, non far entrare in questa breve testimonianza le emozioni, ma vado avanti nel racconto essenziale. Fu grazie anche alla nostra amicizia che nacque il libro Orgosolo (Farhenheit 451, Roma 2000), una ricerca fotografica condotta nel 1966 e nel 1998, che contiene la narrazione fotografica della quotidianità del presente e del recente passato, senza che mai mettere in primo piano, ma anche senza nascondere, il segno in essa di un paese violento e, insieme, dolce e vittima. Così gli abitanti sono ritratti nella loro veste più antieroica e a-turistica, quella che si svela solo agli sguardi periferici, non frontali. Nel libro ci sono tante madri, ragazze e bambini, le cui immagini sono disincantate ma non condizionate, a confortarci del fatto che l'arte può ancora distruggere le distorsioni della realtà. La relazione di Sebastiana con il suo prossimo, qui come altrove, è riuscita a sovvertire i cliché della fissità mitografica sui luoghi, cogliendo le costanti della vita in una quotidianità vissuta intensamente da uomini e donne che qui e non altrove, per misteriosa fortuna, sono chiamati a lasciare un segno di cittadinanza sulla Terra.
Sebastiana se n'è andata in silenzio il 19 aprile del 2002, colpita da una malattia inesorabile, così come nel silenzio e nella riflessione aveva dedicato la sua vita a fermare nelle immagini l’anima delle persone che ritraeva. "Tutti i giorni del calendario hanno una cicatrice e taluni ne hanno due", scrive David Grossman, amico della fotografa, nella prefazione all'ultimo dei suoi lavori dedicati (ancora) al Medioriente (Il Kotel. Il muro metafisico). Io ho avuto l'onore di redigere invece la postfazione di Orgosolo. Cercatelo, è un bel libro.
Le sue ultime parole per me sono nel biglietto di auguri speditomi dall'India durante quello che sarebbe stato il suo ultimo Natale: "Cara amica, quanto più questo mondo è dolente, tanto più noi dobbiamo coltivare la gioia senza motivo".
(Dovrei passare allo scanner qualche sua foto per metterla qui, ma preferisco invece invitarvi a cercare i suoi diversi e bellissimi libri.)
Il remoto e il quotidiano. India: danza e gesto (1978) |
(Foto aggiunta al post il 31 agosto 2011.)
2 commenti:
si, vabbè, ma pubblica lo stesso qualche foto, solo per farci contenti
:))
è che adoro la gioia senza motivo
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