Rassegnati a un panorama letterario – dove per lo più la sarda umanità è segnata dal "mito della cattiva stella", dal complesso dei malfatati o da altri poco dissimili luoghi comuni, madri anaffettive incluse –, ecco Giuliana Lai che ci stupisce e consola: guardate signori, sembra volerci dire, che la storia di cui sono testimone non viene da quella immane tristezza. Io vi racconto di chi, appartenente a quella stessa storia, porta con sé l'eredità del corbulaio, un artigiano che dalla Barbagia arrivava a Ulassai gridando a canzone per fare uscire dalle loro abitazioni le donne desiderose di comprare o anche solo di poter ammirare gli oggetti di uso quotidiano: corbulas, turuddas, avajones, tazzeris... la poetica produzione dell'artigiano. Già: poesia non viene infatti da poiein e quindi dal fare in un rapporto conoscenza e vicinanza alle cose utilizzate per produrre altre cose?
Le memorie di Giuliana, scritte quasi nascostamente nella sua casa di Cardedu, sono diventate un libro, L'erede del corbulaio, edito da Art Duchamp. La pubblicazione è il regalo che Maria Lai ha fatto alla sorella prediletta per il suo ottantesimo compleanno. Un dono fatto a molti, e non solo perché si tratta di un diario leggibile anche come "ritratto dell'artista da giovane", ma perché queste memorie restituiscono lo spessore del divenire alla storia del popolo sommerso dei corbulai, ossia a coloro che dentro quella sofferente di un popolo (ma non solo dei sardi) semplicemente fa, opera, stando vicino alle cose. Così vi si narra dell'operosa famiglia da cui discende "Maria Lai" (scrive il nome con cognome virgolettando, la sorella dalla lunga e candida treccia) che fa la sua comparsa alla fine del millesettecento, nell'epoca in cui da Ulassai scomparve il corbulaio. Racconta Giuliana delle vicissitudini di tre generazioni di uomini e di donne, attraverso la microstoria dell'antico paese e dei villaggi dirimpettai e, a lato, del mutamento delle abitudini di vita, dei costumi e della costante relazione affettiva della vasta famiglia dell'autrice con quel mondo originario. Ma gli elementi visibili non sono solo quelli della semplicità primordiale: insieme all'incanto per i silenzi e gli spazi naturali c'è il rispetto della fatica e bellezza del lavoro di tessitura femminile (il libro è corredato dalle fotografie dei bei lavori di cucito dell'autrice), della cura della terra, dell'affetto e dell'attenzione per i piccoli, della dedizione personale al prossimo, di quei sopravvissuti paesaggi trasformati da un lavoro umano nobile, di tradizioni distanti da qualsiasi mistica del dolore. E si racconta di come l'evoluzione culturale dei componenti familiari sia stata messa a servizio di realtà. Al riguardo, tra tutti, risalta la figura del penultimo dei figli dei nonni materni dell'autrice: Manfredi, medico di Ulassai e dei villaggi dirimpettai, uomo solitario, che morì povero, "mentre tutti noi diventammo ricchi di lui"...
Sono tante le cose e le dimore descritte nel libro, ricche di suggestioni: uomini, donne, bambini, paesaggi, stanze, oggetti, relazione, e centrale alla narrazione è la grande casa in collina che guarda il nuraghe. Giuliana Lai, con garbo e grande senso pittorico, racconta di passato remoto, passato prossimo, ma anche di presente, dando indicazioni per un futuro possibile, come solo una donna modernissima ma custode di antiche sementi può fare. L'intelligenza e la curiosità, unite alla capacità di mettersi in relazione affettiva col mondo, apre al confronto libero e serio e colmo di meraviglia con quel che è diverso dal mondo di provenienza. Nel libro c'è anche un disegno di Maria Lai che la ritrae, questa meraviglia. Interessante vedere come sia lo stesso spirito che ha guidato l'autrice alla scoperta dei musei d'arte a Parigi che poi governa anche esperienze più noiose e dolorose. Anche l'occasione data dalla malattia diventa un viaggio in un ambiente diverso (l'ospedale) con persone diverse (le compagne di corsia): "Avevo paura, ma non lo avvertivo ", scrive Giuliana. La cultura aiuta a vincere la paura, ha detto in sintesi Maria Lai intervenendo dal pubblico, la sera che presentammo il libro a Perdasdefogu:* un incoraggiamento bello e sentito l'invito a ritrovare quel ritmo.
"Quel che dura lo fondano i poeti", indicherebbe ancora oggi l'inattuale Salvatore Cambosu, autore di Miele amaro e maestro primario dell'artista. E Giuliana la testimone confermerebbe: i corbulai lasciano la traccia del loro passaggio sulla terra, i corbulai con le loro ceste fatte dal faticoso e solitario intreccio di giunchi, asfodeli e corda, e i Manfredi che trasformano in civiltà possibile la vicinanza e la conoscenza degli elementi, guardando il mondo con un filtro fatto di rigore e amore.
Le memorie di Giuliana, scritte quasi nascostamente nella sua casa di Cardedu, sono diventate un libro, L'erede del corbulaio, edito da Art Duchamp. La pubblicazione è il regalo che Maria Lai ha fatto alla sorella prediletta per il suo ottantesimo compleanno. Un dono fatto a molti, e non solo perché si tratta di un diario leggibile anche come "ritratto dell'artista da giovane", ma perché queste memorie restituiscono lo spessore del divenire alla storia del popolo sommerso dei corbulai, ossia a coloro che dentro quella sofferente di un popolo (ma non solo dei sardi) semplicemente fa, opera, stando vicino alle cose. Così vi si narra dell'operosa famiglia da cui discende "Maria Lai" (scrive il nome con cognome virgolettando, la sorella dalla lunga e candida treccia) che fa la sua comparsa alla fine del millesettecento, nell'epoca in cui da Ulassai scomparve il corbulaio. Racconta Giuliana delle vicissitudini di tre generazioni di uomini e di donne, attraverso la microstoria dell'antico paese e dei villaggi dirimpettai e, a lato, del mutamento delle abitudini di vita, dei costumi e della costante relazione affettiva della vasta famiglia dell'autrice con quel mondo originario. Ma gli elementi visibili non sono solo quelli della semplicità primordiale: insieme all'incanto per i silenzi e gli spazi naturali c'è il rispetto della fatica e bellezza del lavoro di tessitura femminile (il libro è corredato dalle fotografie dei bei lavori di cucito dell'autrice), della cura della terra, dell'affetto e dell'attenzione per i piccoli, della dedizione personale al prossimo, di quei sopravvissuti paesaggi trasformati da un lavoro umano nobile, di tradizioni distanti da qualsiasi mistica del dolore. E si racconta di come l'evoluzione culturale dei componenti familiari sia stata messa a servizio di realtà. Al riguardo, tra tutti, risalta la figura del penultimo dei figli dei nonni materni dell'autrice: Manfredi, medico di Ulassai e dei villaggi dirimpettai, uomo solitario, che morì povero, "mentre tutti noi diventammo ricchi di lui"...
Sono tante le cose e le dimore descritte nel libro, ricche di suggestioni: uomini, donne, bambini, paesaggi, stanze, oggetti, relazione, e centrale alla narrazione è la grande casa in collina che guarda il nuraghe. Giuliana Lai, con garbo e grande senso pittorico, racconta di passato remoto, passato prossimo, ma anche di presente, dando indicazioni per un futuro possibile, come solo una donna modernissima ma custode di antiche sementi può fare. L'intelligenza e la curiosità, unite alla capacità di mettersi in relazione affettiva col mondo, apre al confronto libero e serio e colmo di meraviglia con quel che è diverso dal mondo di provenienza. Nel libro c'è anche un disegno di Maria Lai che la ritrae, questa meraviglia. Interessante vedere come sia lo stesso spirito che ha guidato l'autrice alla scoperta dei musei d'arte a Parigi che poi governa anche esperienze più noiose e dolorose. Anche l'occasione data dalla malattia diventa un viaggio in un ambiente diverso (l'ospedale) con persone diverse (le compagne di corsia): "Avevo paura, ma non lo avvertivo ", scrive Giuliana. La cultura aiuta a vincere la paura, ha detto in sintesi Maria Lai intervenendo dal pubblico, la sera che presentammo il libro a Perdasdefogu:* un incoraggiamento bello e sentito l'invito a ritrovare quel ritmo.
"Quel che dura lo fondano i poeti", indicherebbe ancora oggi l'inattuale Salvatore Cambosu, autore di Miele amaro e maestro primario dell'artista. E Giuliana la testimone confermerebbe: i corbulai lasciano la traccia del loro passaggio sulla terra, i corbulai con le loro ceste fatte dal faticoso e solitario intreccio di giunchi, asfodeli e corda, e i Manfredi che trasformano in civiltà possibile la vicinanza e la conoscenza degli elementi, guardando il mondo con un filtro fatto di rigore e amore.
B.M.
1 commento:
"Quel che dura lo fondano i poeti".
Che frase incredibile. E com'è bello questo pezzettino di vita, raccontata da una voce dolcissima.
Quante cose, quante persone, quanti cieli non sappiamo (anche le persone si possono "sapere"): eppure tu, in questo tuo scritto, mi hai fatto pensare a tutto questo...
Molto bello, e lo dico senza piaggeria.
Dan (Macca)
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