15 marzo 2010

Autotraduzione per un amico italiofono


A cosa serve?
Un lusso porsi simili domande, circondati come siamo da questioni e problemi materiali – a volte anche superflui se messi a confronto con altri ancora che appaiono in un orizzonte più vasto, lontano dal nostro quartiere, dall'isola, e da dove ci arriva una tristezza cosmica per le creature che al mondo sostano in uno stato di enorme sofferenza, patendo fame, soprusi di ogni genere, in mezzo all'infinita guerra.
Ma allora cos'è la poesia in questa specie in questa realtà che, per dirla con Cioran, "ci dà l'asma"? A cosa serve? E non è soltanto una inutile serva?
La risposta a una simile domanda, tempo fa, ha costituito una mia prefazione a un'antologia di poeti minori del novecento sardo. Ma anche lì non ho voluto affatto avvicinarmi – come anche qui – alla poesia sarda in un modo diverso rispetto all’”altra” poesia, e qui ancor di meno desidero ovviamente dire alcunché di filologico. Quel che vedo è che in quasi tutta la poesia in sardo convivono due cose pertinenti la vita attuale (che è ormai iniziata da un pezzo “la vita d’oggi”, anche in Sardegna, eh…): da un lato vi è l'adesione alla modernità e alle possibilità cocrete di una vita in apparenza più "dolce", dall’altro lato vi è la nostalgia per un altro mondo, che resta sempre nascosto, a lato di ogni cosa che materialmente si muove e agisce nel modo di vivere attuale, così come la costituisce e la forma "il progresso": un mondo, quel che intende il poeta, che parla una lingua muta, o «il linguaggio delle cose mute», per dirla con Baudelaire. Per i sardi, in più individualità e opere, la poesia è anche una suggestione di paesaggio immobile, che non cambia con lo scorrere del tempo. Allora, forse, i poeti sono proprio quelle creature che ancora hanno la capacità di intendere (un intendimentu che è ascolto e sentimento) le cose che sono “sotto” a ogni mutamento delle superfici, e di fronte a un mare molto grande essi, i poeti, vanno a fondo, oltre l’increspatura che il vento dà alle onde…
Pietro Mura, di Isili, poeta e artigiano maestro del rame, padre di un altro grande poeta il cui nome è Antonio Mura, per raccontare del suo mestiere scriveva: ippo operaiu de luche soliana (“ero operaio della luce del sole”)… e così fermava l'eterno in seno alla precarietà del movimento delle braccia che forgiano la materia.
E allora la poesia è soltanto questa ricerca di immobilità, di una verità costante, immutabile, che lascia sempre segreto il mistero?
Eugenio Montale, durante la cerimonia del Nobel, disse che lo si stava premiando per aver scritto poesie, cose inutili, ma che non facevano male a nessuno!
Ad Attilio Bertolucci – una voce alta della poesia italiana contemporanea, morto qualche tempo fa a 88 anni – quando stavano per consegnarli il Premio "Flaviano", gli domandarono: "Maestro, a che serve la poesia oggi?". Per tutta risposta raccontò questa storia:
«Dal '39 al '43 sono stato professore in un liceo di Parma. Insegnavo italiano e storia dell’arte, ma insegnavo anche l'antifascismo. Tra in ragazzi della mia classe, ce n’era uno particolarmene intelligente e coraggioso. Per farla breve vi dico subito che questo giovane poi divenne un partigiano e venne arrestato più volte. A un certo punto scomparve e non sapemmo più niente di lui. Alla fine della guerra ci arrivò la notizia della sua fucilazione in  piazza del Duomo, a Mantova, avvenuta nell’inverno del '44. I suoi compagni si erano salvati e avevano consegnato alla madre una sua  lettera, scritta un momento prima di andare a morire. Una lettera bellissima: in quel pezzo di carta blu, aveva trascritto una mia poesia intitolta "Insonnia": Come cavallo / che meridiana ombra impaura / s'impunta il sonno finchè l'alba sbianca l'oriente / allora, stanco, si rimette a trottare / per borgate che si svegliano / davanti a osterie che riaprono / da cui escono voci / e un fresco odore di grappa.
Forse Bertolucci, con questo racconto, ci vuol comunicare che la poesia a qualcosa può servire, no? Qui ha fatto compagnia a un ragazzo, nel momento più tragico della sua vita. Ed è soltanto uno dei suoi tanti valori, questo, che può e deve avere ancora oggi: la poesia serve a confermare la presenza di umanità in un mondo che la nega.
Possiamo anche paragonare la poesia alla libertà di essere al mondo con con dignità.
La poesia è anche una forma di "commercio": parola, quest’ultima, che risulta maggiormente comprensibile nell’accezione francese, lingua nella quale è una parola ambivalente (come nel sardo logudorese), avendo sì un senso economico, ma volendo anche dire "scambio" nel senso del sostare con gli altri per raccontare e raccontarsi. La poesia, allora, mi domando se non sia appunto anche una forma superiore di commercio, uno scambio di doni, di sensibilità, trasmissione gratuita di tesori. La lingua, grascias a Deus (scusate, in italiano non lo so dire), non vale a nulla, non è commerciabile, non si può vendere né comprare, intanto che invece continua a creare quell’altro genere di commercio tra gli individui.
In questo senso intende la sua scrittura poetica Giovanni Dettori – poeta di origine sardo-bittese da tanti anni emigrato in Piemonte – che scrive in italiano (e va bene uguale): un italiano bello, che della lingua madre conserva il suono, il ritmo, o se volete, l’andamento…: Non dire nulla a questi luoghi ascolta / paziente / ascolta una lingua che ignori / raccontano parlano – parlano! – / dentro un mondo muto / una bambina una madre sotto un olmo che stranamente vive / ancora commerciano parole.
Ma "negoziare" (in sardo "commerciare" è negossiare) per raccontare quel modo che sentiamo presente e quasi parallelo ad altri mondi, è come raccontare di un mare troppo grande. E allora i poeti sanno anche che non bastano le parole, una dietro l’altra, come ci insegnano le grammatiche, le sintassi o le altre madri autorevoli. I poeti usano le parole come perle per fabbricare collane sempre nuove e diverse, e i loro grani, toccandosi tra di essi, hanno la capacità di far nascere suoni sorprendenti. E allora vi dico che per me la poesia è dove viene resuscitata la meraviglia dei suoni, è dove si rinnova lo stupore di esser vivi. Perché questo mare troppo grande che è la vita, non bastano le parole del giorno e della notte per poterlo raccontare. E infatti i poeti sono creature che non raccontano soltanto: essi cantano a poesia. Raccontano, cantano, camminano e camminando domandano: cosè la poesia? a cosa serve?
 B.M.

4 commenti:

danmatt65 ha detto...

Io ringrazio, anche a nome dell'amico...
:-))
Posso metterlo sul mio Blog, in questo periodo in cui la mia testa non riesce a far altro che vedere nero?
Dan (Macca)

bianca ha detto...

Claro que sì!

(Forza, dai)

rita ha detto...

i poeti sono musicanti di parole, alcuni ti piacciono, altri stridono altri sono il legame con l'eternità, l'anima mundi. Questi ultimi riescono a farti provare sensazioni molto belle. anche di felicità. se la sai riconoscere.
Ai miei specializzandi chiedo sempre se conoscono poesie, anche scolastiche, e chiedo di recitarle, è un modo per coltivare il lato umano della nostra professione. La poesia è arte di vita.
Ora a scuola non si imparano più le poesie a memoria. Forse è una perdita. Mia madre ogni tanto recita dei versi imparati da giovane che raccontano storie o momenti della vita. Mi piace molto ascoltarla.
Le poesie sarde mantengono vivo il legame con il nostro mondo. Chissà se riusciremo a farlo sopravvivere nei nostri figli.

bianca ha detto...

Non ci sono distinzioni di "nazionalità" con la poesia, Rita cara, almeno dal punto di vista del "valore", se così si può dire. Anche se, come te, credo che la chiave della vicinanza a certi "suoni", quell'essere stati stati bambini in una terra impregnata di sensibilità al "mito", l'educazione fatta di oralità, di racconti, la prossimità così intima al silenzio (dei paesaggi, dei vicoli, e quell'abitudine di parlare sempre sotto voce), ecco… un po' conti, anzi: conta. La poesia è un occhio freddo sul mondo, vigile, orecchio aperto, luce che illumina le cose oltre la conformità, e non ha niente a che vedere con il sentimentalismo.
(Quanto ha aiutato anche la nostra adorata amica, sino alla fine dei suoi giorni…).