SE, sopo tanti anni, quel visitatore sonerà al cancello di Via Porto Maurizio, Cosima non gli verrà incontro ad aprirgli, come altre volte. Tante cose sono mutate; mutato persino il nome della via.
«Via Porto Maurizio: da questo porto siamo un bel giorno salpati, verso i mari gelati e le metropoli scintillanti ai confini della terra abitata. Da esso un altro bel giorno, in una barca d'ebano decorata d'oro e lieta di ghirlande e di rose, salperemo verso il paese dei cipressi, che ci sembra limitrofo ed è invece oltre i confini della terra ». (Così scriveva nel dicembre del 1927, dopo aver ricevuto il premio Nobel).
Dalle finestre della sua casa si vedevano i cipressi del Verano e i Colli Albani. Fiochi vi giungevano allora i rumori della città. Bastavano pochi passi, e si entrava nella campagna: una campagna che respirava tanto vicina da ridestarle spesso il ricordo dei luoghi della sua adolescenza, ai quali soleva ritornare d'estate.
Quel pomeriggio Cosima camminava
lentissima sul sentiero di Valverde: parlava sottovoce dei colori
della valle con un pittore che firmava con un ragno le sue tele e i suoi disegni. Solo si rammaricava di tanto in tanto non fosse con loro un poeta con gli occhi azzurri. Il poeta poteva camminare a stento lungo il Corso lastricato, al braccio di un amico; e talvolta avendo a fianco un giovane scultore che aveva dato vita a una madre dolorosa.
A una svolta ella chiese al fanciullo che cosa ne
fosse stato di una casa lontana, dove egli era cresciuto, e che ella
aveva conosciuta da ragazza: una di quelle case padronali piene
d’abbondanza, di servi e di mendicanti. Quella casa era quasi un
ricordo: era come sparita insieme con i grandi banditi e le epiche
bardane, con gli amuleti e i fattucchieri, e i cercatori pazzi
di tesori, e gli esodi migratori, e le diligenze lente e avventurose,
e gli alibi raccomandati alla velocità dei cavalli. Da poco era arrivato il fustagno, con le cotonine e le tele stampate. Rara la cambiale e la bancarotta, sacra la parola data. A ogni ovile si poteva ricevere ancora pane e companatico, e un posto accanto al fuoco, e la stuoia, ma già l'usanza era minacciata dall'avvento dei caseifici e dei treni.
Il
fanciullo, timido e malinconico di natura, le rispose con uno
sguardo, nel quale ella lesse forse un nascente rimpianto d’un
mondo che tramontava e lo consolò con una carezza e un sorriso di
luna.
Salvatore Cambosu
ricorda così la cugina Grazia Deledda, in Miele amaro. Racconti dettati a Maria Lai, Arte Duchamp, Cagliari 2001, pp. 99-100.
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