28 maggio 2016

Ricordo di Cosima

SE, sopo tanti anni, quel visitatore sonerà al cancello di Via Porto Maurizio, Cosima non gli verrà incontro ad aprirgli, come altre volte. Tante cose sono mutate; mutato persino il nome della via.
«Via Porto Maurizio: da questo porto siamo un bel giorno salpati, verso i mari gelati e le metropoli scintillanti ai confini della terra abitata. Da esso un altro bel giorno, in una barca d'ebano decorata d'oro e lieta di ghirlande e di rose, salperemo verso il paese dei cipressi, che ci sembra limitrofo ed è invece oltre i confini della terra ». (Così scriveva nel dicembre del 1927, dopo aver ricevuto il premio Nobel).
Dalle finestre della sua casa si vedevano i cipressi del Verano e i Colli Albani. Fiochi vi giungevano allora i rumori della città. Bastavano pochi passi, e si entrava nella campagna: una campagna che respirava tanto vicina da ridestarle spesso il ricordo dei luoghi della sua adolescenza, ai quali soleva ritornare d'estate.
Quel pomeriggio Cosima camminava lentissima sul sentiero di Valverde: parlava sottovoce dei colori della valle con un pittore che firmava con un ragno le sue tele e i suoi disegni. Solo si rammaricava di tanto in tanto non fosse con loro un poeta con gli occhi azzurri. Il poeta poteva camminare a stento lungo il Corso lastricato, al braccio di un amico; e talvolta avendo a fianco un giovane scultore che aveva dato vita a una madre dolorosa.
A una svolta ella chiese al fanciullo che cosa ne fosse stato di una casa lontana, dove egli era cresciuto, e che ella aveva conosciuta da ragazza: una di quelle case padronali piene d’abbondanza, di servi e di mendicanti. Quella casa era quasi un ricordo: era come sparita insieme con i grandi banditi e le epiche bardane, con gli amuleti e i fattucchieri, e i cercatori pazzi di tesori, e gli esodi migratori, e le diligenze lente e avventurose, e gli alibi raccomandati alla velocità dei cavalli. Da poco era arrivato il fustagno, con le cotonine e le tele stampate. Rara la cambiale e la bancarotta, sacra la parola data. A ogni ovile si poteva ricevere ancora pane e companatico, e un posto accanto al fuoco, e la stuoia, ma già l'usanza era minacciata dall'avvento dei caseifici e dei treni.
Il fanciullo, timido e malinconico di natura, le rispose con uno sguardo, nel quale ella lesse forse un nascente rimpianto d’un mondo che tramontava e lo consolò con una carezza e un sorriso di luna.
Salvatore Cambosu ricorda così la cugina Grazia Deledda, in Miele amaro. Racconti dettati a Maria Lai, Arte Duchamp, Cagliari 2001, pp. 99-100.

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