Di che materia è fatta la memoria? La mia, se torno a quel 23 maggio del
1992, è fatta di odori, di scirocco, di pioggia, di lacrime. Arrivai a
Palermo quasi direttamente dai palazzi del potere romano dove seguivo
per Il manifesto le votazioni per il nuovo capo dello stato che si
avvitavano su se stesse senza via d'uscita, dopo la trombatura di Giulio
Andreotti tra le cui gambe era stato gettato, nel marzo di quello
stesso anno, il cadavere del suo plenipotenziario in Sicilia, Salvo
Lima, garante del patto tra la politica e Cosa Nostra.
Questo
adesso è un fatto acclarato, ma per averlo detto allora, insieme a
Sandra Bonsanti, collega di Repubblica, nel corso di una rovente puntata
di Samarcanda, la trasmissione di Santoro e Ruotolo, rischiai
fisicamente il linciaggio da parte degli amici di Salvo Lima (che non
erano esattamente tipi raccomandabili).
Mentre dall'aeroporto
corro verso il luogo della strage incrocio in senso opposto il corteo
presidenziale che sta riportando a Roma il vicecapo dello Stato,
Giovanni Spadolini, che si lascia alle spalle la Beirut italiana e torna
nei Palazzi in disfacimento. Simbolo di un sistema politico che sta
cadendo sotto i colpi di Tangentopoli, nel quale la mafia sta perdendo i
suoi vecchi punti di riferimento e ne cerca di nuovi. L'odore,
lì a Capaci, è quello ferrigno della morte, della polvere rossa che il
vento di scirocco trascina con sé nell'aria che sa di esplosivo, di
catrame ancora caldo. Per terra, pezzi di tela militare sbattuti dal
vento, due mazzi di fiori di campo poggiati su un cumulo di terra. Per
duecento metri l'autostrada non esiste più, è stata cancellata, spazzata
via. Ecco il grande cratere di terra rossa: qui sotto c'erano mille
chili di tritolo, una potenza micidiale che ha sollevato l'asfalto che
ora se ne sta ingobbito, dilaniato da quella forza devastante
sprigionata dal suo stesso ventre.
La macchina sulla quale
viaggiavano Giovanni Falcone e sua moglie Francesca Morvillo, è ferma
sul ciglio del cratere, con il muso stritolato dalla furia del primo
impatto, tutti i suoi congegni elettronici sono lì sventrati,
oscenamente esposti. Poco più dietro, un'altra macchina della scorta
messa di traverso e più in là un'altra ancora che sembra come
schiacciata da una mano potente che scende dall'alto. Ecco, così sono
morti Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Antonino Montinaro, Vito
Schifani, Rocco Di Cillo.
Un cronista di Radiomontecarlo mi
dice: «It's a war». Già, ma in questa guerra lo stato si ferma dopo ogni
piccola battaglia vinta, mentre la mafia, giunta all'apice della sua
potenza economico-militare, dispiega la propria onnipotenza e dice: io
posso tutto, io posso assassinare come un cane, in mezzo alla strada,
l'uomo politico che non ha mantenuto le promesse; io posso togliere di
mezzo il giudice più protetto d'Italia, il mio nemico numero uno, quello
che vi ha costretto a guardare di che cosa sono fatta davvero. E per
farlo vi dimostro che posso, letteralmente, sollevare la terra sulla
quale camminate.
Sapremo dopo che era così cominciata una
trattativa che voleva revisione dei processi e abolizione del carcere
duro. E che per averla intuita e disapprovata morì Paolo Borsellino.
Falcone doveva morire perché aveva guardato il mostro negli occhi, ne
aveva compreso il salto di qualità. Non più un insieme di cosche, ma un
vertice che governa con il pugno di ferro, che ha intrecciato legami con
pezzi della politica e dello stato. L'aveva detto, Falcone, dopo
l'attentato fallito alla sua villa dell'Addaura, quando parlò di «menti
raffinatissime» che l'avevano ordito. L'aveva detto nella sentenza del
processo Maxi-ter a Cosa Nostra quando, parlando dei grandi delitti
politico-mafiosi, Piersanti Mattarella, Carlo Alberto Dalla Chiesa,
Michele Reina e Pio La Torre, li definiva «omicidi in cui si è
realizzata una singolare convergenza di interessi mafiosi e di oscuri
interessi attinenti alla gestione della cosa pubblica, fatti che non
possono non presupporre tutto un retroterra di segreti e inquietanti
collegamenti, che vanno ben al di là della mera contiguità e che debbono
essere individuati e colpiti se si vuole davvero voltare pagina». La
condanna a morte di Giovanni Falcone sta tutta scritta lì. I finti
amici di Falcone, i beatificatori postumi, quelli che prima lo
chiamavano spregiativamente «il giudice sceriffo», «il giudice
comunista», e che oggi lo additano ad esempio contro i suoi colleghi che
ancora cercano la verità sulla stagione delle stragi, questi mentitori
affermano che lui non credeva nei legami tra mafia e politica.
Era
tutto il contrario: avendo compreso in quale trama di potere giocasse
Cosa Nostra, Falcone cercava gli strumenti per poterli mettere a nudo.
Ci provò dapprima con il suo lavoro di magistrato, finché non gli
legarono le mani; poi cercando di cambiare dall'interno la politica
giudiziaria, delineando la Procura nazionale antimafia. In questo
cammino commise anche errori, forse sottovalutò la capacità di irretirlo
del potere e sopravvalutò la volontà di taluni di combattere veramente
la mafia.
Le critiche che gli vennero da chi era stato amico lo
ferirono profondamente, ma erano fatte in buona fede e nascevano anche
dalla preoccupazione che certe mediazioni, non solo non gli avrebbero
consentito di raggiungere i suoi obiettivi, ma lo avrebbero esposto come
ostacolo al patto di convivenza tra stato e mafia.
Mentre torno
a Palermo, vent'anni dopo, rileggo quel che scrivevo allora, cercando
di spiegare perché, dopo aver ucciso l'uomo del legame tra politica e
mafia, Salvo Lima, Cosa Nostra avesse alzato il tiro sul suo nemico
giurato: «Un atto di terrorismo mafioso... l'hanno fatto mentre il
Palazzo viveva un passaggio delicatissimo: un'elezione presidenziale nel
corso della quale si ridisegna l'equilibro del potere. Non c'è bisogno
di pensare a complotti a trame oscure. Purtroppo è tutto tragicamente
chiaro: un pezzo d'Italia che è Colombia e Libano. Con i piedi ben
piantati qui, il potere mafioso alza la testa e guarda in alto, alla
ricerca del suo posto tra i poteri, oligarchia armata che vive del
deficit di democrazia e a sua volta lo alimenta».
Allora non
sapevo, mentre tornavo a Palermo, tra l'odore delle stigghiole arrostite
per strada e le ceste di pane, leggendo su qualche rudimentale cartello
la scritta «Falcone sei vivo», non immaginavo che sarei dovuto tornare
due mesi dopo, per la strage di Via D'Amelio. E che l'anno dopo la
strategia stragista del potere mafioso avrebbe toccato il suo apice. Non
ero consapevole che era cominciato il nostro 11 settembre, come mi
disse dieci anni dopo la strage Andrea Camilleri, che intervistai per
La7 : «Falcone e Borsellino sono i nostri eroi. È come se fossero cadute
le nostre Torri Gemelle».
Ma non fu solo un giorno, una data:
fu un biennio nel quale agì un intreccio tra pezzi della politica e
delle istituzioni e poteri criminali che impresse una torsione
nettamente antidemocratica alla transizione italiana e del quale ancora
non siamo venuti a capo.
È questa l'anomalia italiana che non è
mai stata superata e che, dopo l'attentato di Brindisi, ha fatto pensare
Qualunque sia l'esito delle indagini su Brindisi, per questo è
sacrosanta la ribellione alla violenza da parte dei giovani e del mondo
della scuola. Anche se la mafia ha scelto di abbandonare la strategia
dell'attacco militare, non per questo è meno pericolosasubito a un
riproporsi di quegli scenari.
Anzi, nella complicità o
nell'indifferenza della politica, ha conquistato le roccaforti
dell'economia del Nord, si è insinuata nel tessuto del paese come un
veleno sottile, col quale in troppi hanno imparato a convivere. È parte
di un sistema di malaffare e di corruzione che corrode la politica e la
democrazia. Anche questa è una strage: di libertà, di diritti, di
cittadinanza.
È giusto dirlo oggi, insieme alla folla di ragazzi
e ragazze con i quali sto navigando verso Palermo, per ricordare quel
che accadde quando loro non erano ancora nati. Io c'ero, posso
raccontare loro il dolore attonito di una città che poi si farà rabbia
all'apparire dei vertici istituzionali, le lacrime che si confondevano
con la pioggia. Paolo Borsellino, un maschera da tragedia greca avvolta
in una perenne nuvola di fumo, Giuseppe Ayala ripiegato su se stesso,
una pertica che pare sul punto di spezzarsi, Giuseppe Di Lello, il
nostro carissimo amico Peppino, piccolo e solo, senza scorta, talmente
indifeso che ci stringiamo attorno a lui, quasi a fargli da scudo. E poi
quelle parole di Rosaria Schifani, quella specie di lamento funebre
contro i mafiosi: «Io vi perdono, ma inginocchiatevi... ma no voi non lo
fate... non lo fate», che risuonò nella chiesa di San Domenico come una
biblica maledizione.
Carmine Fotia, Falcone raccontato a chi non era ancora nato, Il Manifesto del 23 maggio 2012.