Nella lingua fra i fiumi. Cento e
cento case di canne, paglia e fango. L'alta zicura di limo e tronchi
al limite dell'acqua, trecentotrentatré scalini per arrivare
all'altare dove pulsava il cuore del capro, leggevamo la parola,
interrogavamo il cielo e pronunciavamo oracoli.
...
Il vento calò. La nave si fermò,
il mare era immobile. Non sapendo che fare guardammo M'u il saggio.
Disse: «Preghiamo elencando le sillabe del creatore e le loro
distanze. Er, otto piedi celesti da Uh. Uh, sedici piedi celesti da
Is. Is, nove piedi celesti da Om. Om, nove piedi celesti da Is, da
El, da Un, da Se, da Af, da En, da Mi, da Uv, da Ja». Cantando
danzavamo. Un fulmine squarciò il cielo.
...
Piccoli di statura, scuri di
pelle, abituati a pensare, ragionare, contare, mai concordi fra noi.
Così siamo tuttora, fatti salvi gli imbecilli che non mancano e
nessuna legge potrà mai limitare.
...
Alcune donne
lasciarono i villaggi e andarono a vivere nei nuraghe, aiutavano le
madri a partorire e portavano loro cibo e acqua nei trenta giorni di
buio. Le chiamammo donne di Is, vivevano dei doni delle genti. Nella
stagione del caldo danzavano per invocare pioggia.
...
Ci
moltiplicammo in numero e in valore. Per dimostrare il valore ogni
gente uccideva le genti dei villaggi vicini almeno una volta l’anno,
dopo la festa, nel mese del vento che piega le querce.
Umur
disse: «Meglio sarebbe avere meno guerrieri e più pastori».
Meglio
sarebbe avere meno guerrieri e più pastori.
Se
esiste una parola per dire i sentimenti dei sardi nei millenni
di isolamento fra nuraghe e bronzetti forse è felicità.
Passavamo sulla
terra leggeri come acqua, disse Antonio Setzu, come acqua che scorre,
salta, giù dalla conca piena della fonte, scivola e serpeggia fra
muschi e felci, fino alle radici delle sughere e dei mandorli o
scende scivolando sulle pietre, per i monti e i colli fino al piano,
dai torrenti al fiume, a farsi lenta verso le paludi e il mare,
chiamata in vapore dal sole a diventare nube dominata
dai venti e
pioggia benedetta.
A
parte la follia di ucciderci l’un l’altro per motivi irrilevanti,
eravamo felici.
Le
piane e le paludi erano fertili, i monti ricchi di pascolo e fonti.
Il cibo non mancava neppure negli anni di carestia. Facevamo un vino
colore del sangue, dolce al palato e portatore di sogni allegri. Nel
settimo giorno del mese del vento che piega le querce incontravamo
tutte le genti attorno alla fonte sacra e per sette giorni e sette
notti mangiavamo, bevevamo, cantavamo e danzavamo in onore di Is.
Cantare,
suonare, danzare, coltivare, raccogliere, mungere, intagliare,
fondere, uccidere, morire, cantare, suonare, danzare era la nostra
vita. Eravamo felici, a parte la follia di ucciderci l’un l’altro
per motivi irrilevanti.
Chiamavamo
noi stessi s’ard, che nell’antica lingua significa danzatori
delle stelle.
...
Cantavamo,
morivamo, danzavamo di padre in figlio, crescendo di numero e di
esperienza dell’isola. Eravamo felici.
...
Il
musico suonò tutta la notte e all’alba sollevando gli occhi vide
il mare e il cielo specchiarsi nelle lacrime che colavano sulle
guance di una donna sdraiata a occhi chiusi ai suoi piedi, bella più
dell’alba, capelli neri uniti in cento trecce lunghe fino alle
caviglie e bocca intagliata in polpa di jerejia. La musica tacque,
Aràr aprì gli occhi e vide Eloe di Lo.
...
Facemmo la
nostra parte non cedendo il cuore dell’isola.
I romani ci
chiamavano pelliti perché indossavamo il cappotto di pelli di
pecora. Chiamavano barbara la nostra terra e barbarici i nostri
costumi. Non riuscirono in mille anni a conquistare tutta l’isola.
...
Piedi
scuri, quasi neri, nella pianta non protetta da suola, mai il bambino
aveva messo scarpe. Correva senza rumore, come danzasse. Ascoltava il
vento che arrivava da oriente, cercava l’eco di galoppo di cavalli.
...
Il giudice
viaggiava accompagnato da un volo di falchi.
...
I
falchi impararono a riconoscerla. Prese gusto alla caccia col falco.
Un falco la elesse a propria nutrice. Lei lo chiamò Vento.
...
Parlare.
Ascoltare. Trovare racconti mai narrati, dirli con gioia.
...
Carezze
d’occhi. Labbra, lingua, pelle, nell’acqua fredda del torrente,
sull’erba umida schiacciata dai corpi e morbida, sulle foglie
cadute pungenti e calde di sole, sotto il leccio, sotto la sughera,
sotto l’arancio.
La bontà del
Creatore acceca gli amanti?
...
Il profumo dei
capelli di Eleonora, erba fresca, arance mature, vento del mese di
fiore d’asfodelo.
«Hai gambe di
cerva giovane alla fonte, seno bello come colli del Mandrolisai».
«Hai occhi di
velluto, braccia forti, denti sani».
...
La cavalletta
lasciò l’isola. Il giudice prese a vestirsi la domenica per andare
a messa. La capra in giacca e pantaloni ascoltava tutto il rito in
silenzio e prima dell’Ite fuggiva saltando. L’acqua e il sole si
alternarono secondo giuste stagioni. Il grano era grosso e pieno.
L’uva asciutta e carica. Pani profumati. Vini inebrianti.
L’isola
rivisse. L’olio di quell’anno fu il migliore a memoria d’uomo.
...
Trecento
falchi femmina lasciarono i nidi e volarono fino all’isola di
roccia dinanzi alla costa del meridione occidentale, lungo il viaggio
cantarono un lungo canto che soltanto chi capiva la lingua dei falchi
comprese, giunti alle Colonne si lasciarono cadere in mare come
pietre e morirono affogati. Da allora i falchi custodiscono quel
luogo, lo reputano sacro.
...
Noi
custodi del tempo, dal giorno della perdita della libertà sulla
nostra terra, abbiamo preferito finire la storia a questo punto.
Da Passavamo sulla terra leggeri di Sergio Atzeni