Oltre la linea dell’orizzonte il vento non riusciva più a portarle, le nubi. Pioveva di continuo e il paese intero era sparito sotto la scura coltre. Anche il mare era invisibile, scomparsa la montagna. Sembrava che il gelo si fosse impadronito per sempre della casa.
“Non riuscirò mai più a scrivere...”.
Dopo.
Il cuore gonfio di dolore infecondo, la pelle arida, le parole sole.
Non un’eco.
Immobili, nuvole basse a coprire il mondo.
“Non scriverò...”.
Il cuore gonfio di dolore infecondo, la pelle arida, le parole sole.
Non un’eco.
Immobili, nuvole basse a coprire il mondo.
“Non scriverò...”.
E mentre lo pensava, tuttavia, di quel deserto scriveva.
Ma non già perché che le parole potessero sollevare la coltre: non la sollevavano. Non perché consolassero: non consolavano.
Ma non già perché che le parole potessero sollevare la coltre: non la sollevavano. Non perché consolassero: non consolavano.
Da qualche parte sapeva già che ne avrebbe compreso il senso soltanto al termine della lunga notte.
Scrivere, allora, per fermarli sulla carta i giorni, nel tentativo di porvi termine prima del tempo biologico, e ridisegnandone consapevolmente il segno, avere l’illusione di coglierne il segreto prima di perderlo per sempre. Ora che ogni orizzonte era destinato a scomparire, ancor più del mare, della montagna, dietro la nebbia dell’inverno.
Scrivere, per mettersi di fronte alla verità nuda e cruda di quanto aveva vissuto. Capirne il segreto della perdita oltre la povertà del freddo, nell'orizzonte scomparso.
“Non ce la farò...”.
Ma doveva raccontare. L’unico modo per continuare a far esistere l’enigma della fine. Se non altro.
Kazimir Malevich, Oil on canvas, 1918
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