[Leggendo Le ragazze sono partite, un bellissimo libro di Giacomo Mameli derivato da una raccolta di fonti orali, con una buona struttura narrativa, che affronta il tema dell'emigrazione femminile sarda nel dopoguerra.]
L'immagine
delle ragazze che, soprattutto a partire dal '45, lasciano i piccoli borghi natii dell'isola e si incontrano prima sul treno,
poi sulla nave e poi ancora sul treno, mi evoca gli uomini e le donne in
cammino dei romanzi di Saramago. Tantissimi, insieme, chi a piedi,
chi su un carro. Non si conoscono, prima di incamminarsi, si
conosceranno camminando insieme [omaggio ad A.]. Ma le moltidudini in viaggio non
sono soltanto dei romanzi, come sappiamo, e non sono soltanto di ieri: pensiamo
all'oggi, a quei viaggi a volte simili a deportazioni, e non
dimentichiamo mai di illuminarli con la nostra capacità di leggerli
con tutta l'umanità che ci è rimasta. Nessuno viaggia per
viaggiare, tutti viaggiano per necessità. Ma nei loro cammini
avvertiamo ancora, forse per l'ultima volta, come le cause e gli
effetti possano confondersi, e come la necessità che spinge a
viaggiare possa anche essere, forse, soltanto e ancora quella del viaggio: chi
può affermare che nel corpo di quel ragazzo di vent'anni (presumibilmente...) o di quella
ragazzina di 16 (...) trovati morti in mare non fosse racchiuso anche un "sogno"?... Ma anch'io mi soffermo innanzittutto sulla necessità
primaria, perché la divagazione sul tema del viaggio porta troppo lontano: al discorso sulla libertà della scoperta,
ad esempio, al bisogno naturale di allargare il proprio orizzonte, e, dunque, al discorso sulla libertà, che via via, forse
senza che ne siamo totalmente consapevoli, oggi è diventato un lusso proibito, tanto da apparire addirittura "reazionario"...
Così, per quanto riguarda l'influenza dell'antico bisogno umano di viaggiare nella decisione di emigrare, è senz'altro più opportuno ricordare la lezione di Nereide Rudas (L'emigrazione sarda, 1974), accolta anche da Maria Luisa Gentileschi in Il bilancio migratorio, pubblicato nel 1978. Entrambe le studiose osservano che se da un lato è corretto tenere conto che nel processo emigratorio confluiscono componenti psicologiche e sociali, dall'altro è giusto riaffermare che non per questo l’emigrazione sia un atto di libera scelta. Pertanto è giusto che si riconosca nella situazione di base della migrante o del migrante un bisogno "aperto", ma se anche tale bisogno non è necessariamente riconducibile a una pura spinta economica resta il fatto che, a monte di tali motivazioni e nel quadro entro cui esse si collocano, vi è una condizione generale di arretratezza e di insufficienza dei contesti di partenza, che non permette il soddisfacimento del bisogno stesso, non consentendo in ultima analisi, al migrante o alla migrante di autorealizzarsi nel proprio luogo di origine.
Così, per quanto riguarda l'influenza dell'antico bisogno umano di viaggiare nella decisione di emigrare, è senz'altro più opportuno ricordare la lezione di Nereide Rudas (L'emigrazione sarda, 1974), accolta anche da Maria Luisa Gentileschi in Il bilancio migratorio, pubblicato nel 1978. Entrambe le studiose osservano che se da un lato è corretto tenere conto che nel processo emigratorio confluiscono componenti psicologiche e sociali, dall'altro è giusto riaffermare che non per questo l’emigrazione sia un atto di libera scelta. Pertanto è giusto che si riconosca nella situazione di base della migrante o del migrante un bisogno "aperto", ma se anche tale bisogno non è necessariamente riconducibile a una pura spinta economica resta il fatto che, a monte di tali motivazioni e nel quadro entro cui esse si collocano, vi è una condizione generale di arretratezza e di insufficienza dei contesti di partenza, che non permette il soddisfacimento del bisogno stesso, non consentendo in ultima analisi, al migrante o alla migrante di autorealizzarsi nel proprio luogo di origine.
Concretamente, per stare al libro che mi ha spinto a scrivere questo post, cos'è che ha spinto tante, tantissime giovani donne, a volte ancora bambine (coraggiosissime bambine), a varcare per la prima volta il mare, lasciando i paesi dell'infanzia e la propria famiglia? Scrive Mameli, a p. 68: «Nell'isola e altrove, in Abbruzzo e in Sicilia per
il lavoro femminile non c'era posto». La Fiat a Torino l'avevano fatta
per dare lavoro ai maschi; così gli pneumatici della Pirelli, le
acciaierie di Taranto e Terni, i cantieri navali di Monfalcone e La
Spezia, le miniere della Francia e del Belgio, e così anche le miniere sarde di carbone, «dove i maschi morivano di tumore nero. [...] Il lavoro è sostantivo maschile»: le donne sarde e le altre sparse nel Sud erano
destinate solo ai fornelli e a lavare panni, quasi sempre senza
compenso quando se ne restavano nei paesi di nascita. «Fatica dovuta,
scritta nei libri sacri. Solo per poche figlie di ricchi c'era una
cattedra in qualche scuola. Le figlie dei poveri – se volevano
vedere soldi – dovevano solo partire. E le ragazze partivano. I
paesini restavano vuoti.»
Perché
partono, innanzittutto, le ragazze di cui parla questo libro?
Partono perché sono povere.
Partono perché sono povere.
Cosa
"sognano" le ragazze dei racconti reali tessuti in questo libro?
Vogliono guadagnare il denaro che gli consenta di aiutare la famiglia: aggiustare il tetto della casa natale, aiutare un fratello a rifarsi un gregge rubato, sfamare e vestire le sorelle più piccole, poter curare un familiare malato, aiutare la famiglia a uscire da situazioni di indigenza o quasi. Ma ambiscono anche a fare una vita diversa, a conoscere altro che non sia il paese, le campane della chiesa, le capre, i maiali, il solito povero cibo. Ambiscono anche alla libertà dal rigido controllo paterno o dal controllo sociale tout-court; ambiscono a crescere libere, a emanciparsi, andando a fare le serve in terra anzena.
Sembra un paradosso, vero? Non lo è, o almeno, dagli esiti spesso edificanti della loro emigrazione, di cui nel libro sempre si dà conto, non lo è stato.
Vogliono guadagnare il denaro che gli consenta di aiutare la famiglia: aggiustare il tetto della casa natale, aiutare un fratello a rifarsi un gregge rubato, sfamare e vestire le sorelle più piccole, poter curare un familiare malato, aiutare la famiglia a uscire da situazioni di indigenza o quasi. Ma ambiscono anche a fare una vita diversa, a conoscere altro che non sia il paese, le campane della chiesa, le capre, i maiali, il solito povero cibo. Ambiscono anche alla libertà dal rigido controllo paterno o dal controllo sociale tout-court; ambiscono a crescere libere, a emanciparsi, andando a fare le serve in terra anzena.
Sembra un paradosso, vero? Non lo è, o almeno, dagli esiti spesso edificanti della loro emigrazione, di cui nel libro sempre si dà conto, non lo è stato.
Ciò
detto, cosa vanno a fare le ragazze in città? Vanno a servire in
casa delle famiglie benestanti, cioè a fare le tzeràccas.
E
quando va meglio, cioè quando sono trattate civilmente e non
accolte subito con “tu sei la mia serva”, come accade a
Pietrina, cosa vanno a fare? Vanno a fare le domestiche.
Da tzeràccas
– parola sarda che deriva dal greco antico, e significa
serva
– all'italiano
domestica,
che a sua volta viene dal latino domo,
e dice di colei che si prende cura della casa e, dunque di chi la
abita; e nelle due differenti parole per designare sostanzialmente
la stessa attività, c'è una mobilità di suono, ma anche di senso,
che in primis passa nella muta richiesta di rispetto del proprio
lavoro.
Dunque
vanno a lavorare come come collaboratrici famigliari o
colf, come si direbbe oggi, a casa di gente ricca e anonima, o anche
in case importanti: Giovanna Maretta, ad esempio,
che
aprì la strada dell'emigrazione femminile a Perdasdefoghu, suo paese natale, partì nel 1917, a 14 anni, e rientrò nel 1945.
Lavorò
nella casa romana di Edda Ciano, la moglie del ministro Galeazzo
Ciano, genero di Benito Mussolini, «per
questo, sbagliando di grosso – scrive Mameli –, al paese la
chiamavano sa
seràcca de Mussolini». Ma erano le malelingue ad appellarla in quel modo, perché Maretta,
tornata al paese signora», in realtà era anche un po' invidiata, perché era cambiata, era diversa, e il
contrasto con le ragazze che erano rimaste lì era troppo evidente.
Portava la sciarpa di seta, lunghe collane, il rossetto, mentre le
altre ragazze di Foghesu avevano lo scialle color caffé e rossetto «mai visto».
Delia,
della seconda ondata migratoria femminile, parte per Roma nel 1968,
ha 15 anni appena compiuti, aveva appena ultimato le scuole medie, le
piaceva studiare, le piaceva il teatro, era intelligentissima e
curiosa, tant'è che pure così piccola e piena di malinconia (i
primi giorni piangeva sempre e pensava ai genitori rimasti soli,
seduti davanti al camino «con pochi legnetti») restò incantata
dalla parlata italiana, ed ebbe anche fortuna: trovò
lavoro come baby sitter presso i Kezich-De Manzolin, ossia a casa del
già affermato critico cinematografico Tullio
Kezich, dove fu rispettata e anche voluta bene, come se ne può e se
ne deve volere a una ragazzina. Era poco più di una bambina,
infatti, e quei signori, che evidentemente erano persone per
bene, si presero a loro volta cura di Delia, facendole intraprendere
anche un persorso di crescita personale: patente a 18 anni, corso di
stenodattilografia, Kezich che le fa battere a macchina i suoi
articoli sul cinema destinati al Corriere della Sera. Tant'è che, quando Delia trova un vero e proprio lavoro in un centro
meccanografico, continua a vivere in casa dei Kezich; esce alle sette e mezza
del mattino, rientra alle cinque del pomeriggio, e a partire da
quell'ora sta con il piccolo Giovanni. Poi arrivò il lavoro in banca, uno stipendio
vero, i progetti per un vero futuro...
C'è
la storia di Francesca Zou, alias Cichedda di Nughedu San Nicolò,
alunna di una maestra degna rappresentante di quella che Albino
Bernardini in quegli stessi anni battezzò come La
scuola nemica:
veniva infatti puntualmente pestata in classe. Così, dall'età di
sette anni, Cichedda preferisce fare le commissioni in casa di Cicìta
Tanda, e poi serva malpagata, sino a quando, informata che i
bigliettoni rossi da diecimila lire si potevano trovare solo varcando
il mare, decide di partire. E Parte. Tra l'altro è una delle rare
ragazze che lo fa con una valigia vera (un topos dell'emigrazione che
Mameli non trascura di descrivere), comprata in una merceria di
Ozieri. Le altre ragazze del libro, alla partenza, solitamente
mettevano quel minimo di abbigliamento e biancheria posseduti dentro
una federa bianca, insieme a un po' di pane e formaggio per il lungo
viaggio. Cichedda ebbe un'esperienza di lavoro anche interessante sotto il profilo dell'arricchimento culturale, perché conobbe il mondo del cinema romano di
quegli anni strepitosi per il cinema italiano: il figlio dei suoi datori di lavoro era stato scelto a far parte di un cast – fortuitamente,
mentre si trovava a passeggio con Cichedda il un parco della città –, e quindi la ragazza prese ad accompagnare il piccolo Valerio a Cinecittà, dove
Monicelli girava Deserto
rosso...
Toccante
la storia di Carrùla, serva nelle campagne tra l’Ogliastra e il
Sarrabus dall’età di otto anni …
Curiosa
la storia di Cecilia Melis, domestica a Cagliari dall'età di 12
anni, che emigra a Roma per lavorare in casa di De Quirico. Ma
naturalmente non sa chi sia, e raccontando di sé alle compagne che
incontrava nelle ore libere alla stazione Termini (ribatezzata dalle emigrate "Stazione Sardegna") diceva di prestare servizio «a casa di un
vecchio che dipinge»...
Sophie Calle, Voir la mer, 2011 |