Nel 1985, durante la presentazione della raccolta di racconti di Giulio
Angioni Sardonica all'Istituto Orientale di Napoli, Grazia
Cherchi ebbe a dire che uno dei motivi d’interesse suscitati dalla lettura dell'opera dello scrittore e antropologo è il fatto che egli mai si occupa di «personalissimi,
particolarissimi tormenti [...], dei suoi, per dirla con Vittorini,
“astratti furori”, ma di “sondare il tempo”, e questo
dovrebbe essere il compito della narrativa.
Sono d'accordo con l'indimenticabile scrittrice, giornalista e
curatrice editoriale, che peraltro mette in luce una caratteristica
che Angioni conserva sino al suo ultimo romanzo, Sulla
faccia della
terra,
(Il Maestrale/Feltrinelli,
2015), in cui la storia si integra alla riflessione morale e civile,
mai prescrittiva o “moralistica”, e in cui la memoria dei
personaggi si intreccia al racconto di una umanità dolente, eppure
non perduta, perché segnata dal desiderio della mitezza e da
un'immane speranza. Il
romanzo di Angioni recentemente dato alle stampe, a ben vedere, si
sarebbe potuto intitolare anche “Sullo
specchio dello Stagno”: è infatti la grande laguna a ovest di
Cagliari, che circonda e riflette nelle sue acque le piccole isole,
la grande protagonista in cui l'Autore raduna e fa vivere in
comunione i dispersi della guerra che impazza in terra ferma, dove
genovesi e pisani combattono con le loro truppe mercenarie per la
supremazia, bruciando i borghi e le città.
Corre l'anno 1258; in una notte di luglio, Mannai Murenu, diciasettenne
garzone di vinaio, si ritrova sepolto tra i morti nella presa e
distruzione da parte dei pisani di Santa Gia, fiorente capitale del
giudicato di Cagliari, ed esordisce parlando dei momenti vissuti
fingendosi morto. Settant’anni dopo racconta, appunto, di come
scampò alla carneficina rifugiandosi con altri compagni e compagne
di sventura in una delle isolette dello stagno, già lebbrosario
disabitato, dacché i lebbrosi erano stati letteralmente catapultati
a infettare la città assediata. Isola Nostra, così viene nominato
il luogo della salvezza dai suoi nuovi abitanti. Chi sono?
Si tratta di personaggi semplici e complessi insieme, mai stereotipati,
essendo ciascuno il frammento unico di una storia che attraversa il
tempo e lo spazio, dalla propria provenienza al proprio destino o
destinazione (in spagnolo entrambi i concetti sono detti con uguale
parola): Mannai Murenu, che conosce i sentieri segreti tra i canneti
dello stagno – differenti a seconda del tempo e delle maree –,
che pratica la respirazione appresa suonando le launeddas – utile a
sopravvivere sott'acqua in caso di pericolo, con l'aiuto di una canna
come boccaglio – e che sa interpretare il comportamento dei
fenicotteri; due sediari nuoresi; Paulinu da Fraus, servo allo
scriptorium di un monastero; la nobile ed enigmatica Vera da Turi; la
giovanissima schiava persiana Akì; il vecchio saggio ebreo Baruch,
bachicoltore e poliglotta, interprete e maestro delle lingue; tre
soldati tedeschi di ventura; il burbero pescatore Tidoreddu,
proprietario del “libro ascellare”, che in primis gli salvò la
vita; il cane Dolceacqua, così chiamato perché sa scovare le polle
di acqua potabile; il fabbro bizantino Teraponto; decine e decine di
altri. Insieme prendono a vivere nell'Isola
Nostra «in
disordine e confusione»
(secondo l'accusa del tribunale dell'Inquisizione, in epilogo al
racconto, che bene non finisce...): cristiani, ebrei e musulmani,
sani e lebbrosi, liberi e servi, nell'eguaglianza e nella solidarietà
dettate non da prescrizioni, bensì dalla necessità.
Così, al centro della narrazione, vi è lo sviluppo della vita
comunitaria, protetta dal terrore che all'esterno ancora suscita la
presenza nella piccola isola della presunta lebbra. Uomini
e donne di diverse età, di molteplici nazioni e variegati talenti e
competenze, portano ciascuno e tutti un contributo prezioso alla
costruzione della nuova comunità; in sintonia, reciproco ascolto,
comprensione, tolleranza e ragionevolezza. Ciò consente loro di
salvarsi, crescere insieme, realizzare una convivenza collettiva non
gerarchica («Siamo
diventati in poco tempo sapienti in differenze, in provenienze, in
riconoscimenti di altri modi di stare al mondo»).
Tra
usanze e saperi, storia locale e universale, realtà e utopia,
abitato da persone distanti per un anno dalla costante violenza in
terra ferma, da chi sta in basso e chi sta in alto, nel racconto si
stagliano gli abitanti naturali dello stagno: i pesci, gli uccelli,
le erbe di terra e di acqua. Ma ciò che maggiormente concorre a
dare uno spaccato tangibile dell'operosa umanità dei rifugiati è la
multiforme cultura materiale, in un esempio di sensata e affascinante
vita comunitaria mediterranea, certo lontana anni luce dalla distopia
costruita da William Golding con Il
signore delle mosche.
É
il
“materialismo”, infatti, la consolazione infinita e dignitosa dei
rifugiati dell'Isola Nostra, ostinati a esistere: «E
rinasce lo scopo. C'è da nutrirsi, vestire, abitare. E trovare un
futuro con un senso. Un senso pratico.
Un-così-dev'essere-e-può-farsi. Discutiamo il da fare. Lì ci si
ritrova tutti quanti. Lo scampo eccolo lì, per gente come noi».
Così ancora si esprime una delle donne protagoniste in un frammento
del romanzo, che cito anche per portarne il ritmo, perché
quest'ultimo, insieme ai ricchi contenuti, concorre a formare la
cifra della scrittura di Giulio Angioni: «Quella
notte […] ho subito riconosciuto in voi non dei pericoli, non dei
nemici, non dei maschi qualunque predatori. Ma ho visto in voi ciò
che eravamo noi: figli della sconfitta, fuggiaschi come noi, capaci
di speranza come noi. Vera e io abbiamo preso un ago e un ditale un
rocchetto di refe francese. Per rammendare i vostri vestiti logori,
strappati, bruciacchiati. Per rammendare la vita di noi tutti. E un
pezzo di pasta che stava fermentando nell'orcio di terracotta. Per il
pane della prossima volta».
Un romanzo colmo di aforismi, reso assolutamente contemporaneo dalle
metafore, puntellato di citazioni criptate nei curiosi nomi e
toponimi, e in cui, soprattutto, ancora resiste l'idea che la
salvezza è nel ricordo che diventa parola. Bastiana Madau, Ancora Sulla faccia della terra, Il manifesto sardo, 16 giugno 2015.