27 febbraio 2013

Io non so con quale dolcezza


Eo no isco chin cale dulzura
mi ritirat sa terra ue so nadu.
Matteo Madao

L’immobilità, che è dura a morire quasi quanto la solitudine e la nostalgia, cede dunque al progresso. Alla lentezza biblica s’incrocia la velocità: e chi vuole indugiarsi a camminare lungo i greti del rimpianto, come accadeva a Giacomo Quesada, trovi almeno una sua rassegnazione all’urgere del nuovo considerando le cose che hanno secoli e secoli, nate col segno dell’eterno.
I sassi e le rocce votive di Ulassai; le orme delle capre sull’argilla e il loro festoso subbuglio alla vigilia d’ogni partenza d’ottobre verso il Sud per il ritorno in maggio; l’eco di Morosini, che ripete il fischio del trenino moribondo; le aquile, gli sparvieri, i colombi; le foreste di Santa Barbara, santuario arboreo; la dignità dei fanciulli che non rifiutano al forestiero un servizio o una cortesia, ma respingono come un affronto un qualsiasi compenso.
Le case megalitiche e le rovine delle città vetuste.
I monastici cortili fioriti, e un ciuffo di palme, in Campidano, per l’entrata di Cristo in Gerusalemme.
I tetti di sangue dei villaggi alpestri col fico, l’olmo, il ciliegio per sentinelle.
I villaggi d’alta montagna coi balconcini pensili e la quercia il mirto e la rosa.
La poltrona di trachite delle case dei villaggi occidentali, alla quale fumare la pipa e conversare col vicino in pose orientali.
Le pietre favolose degli animali che l’isola mai conobbe: l’Elefante di Castelsardo, l’Orso di Palau, il Toro, la Vacca e il Vitello di Sant’Antioco.
Il verde argenteo degli oliveti della contrada turritana, punteggiato di cipressi; le valli incantevoli del Tirso e del Temo; le feraci campagne d’Alghero.
Il campanile accanto alla chiesa e i campanilini sui tetti dai quali sale il fumo azzurro.
Lo stazzo e il tormento granitico della Gallura.
Il mare congelato nelle colline dell’Anglona.
La catena del Marghine e il masso centrale su cui domina il Gennargentu, diaframma alla Sardegna, come il Gran Sasso all’Italia, che fu e non sarà più d’impedimento nei secoli all’unità dei Sardi.
I monti anacoreti e le confraternite di scogli.
Il selvatico Ortobene che è un gran concerto d’acque e di foglie.
Le pianure di Giave, le prue dei toneri ogliastrini, l’acropoli di Serrenti, i vulcani spenti.
I campi elisi degli asfodeli.
Gli stagni e le peschiere.
Le piramidi di sale e le catacombe minerarie.
I ponti e i manieri; le torri di Pisa e quelle antisaracine.
I noci, i noccioli, i castagni, i corbezzoli, i carrubi.
I giardini d’aranci.
Le chiese nelle contrade dai bellissimi nomi.
La conquista del vello del cinghiale.
Le danze, i canti, le ardie dei cavalli.
Le feste che domani saranno spensierate.
Terra antica e giovane, isola della resistenza; della quale persino Giacomo Quesada, che pendeva alla malinconia e vi conobbe più dolori che gioie, ebbe a dire negli ultimi suoi giorni che non sapeva andarsene senza esprimere un ultimo desiderio che riconosceva, con suo rammarico, impossibile; quello di nascervi un’altra volta, anche a costo di molto soffrire.
Salvatore Cambosu, Miele amaro, Ilisso, Nuoro 2004, pp. 368-369.  
Maria Lai, Senza titolo (1954)

1 commento:

bianca ha detto...

"Miele amaro", opera composita, dialettica, innovativa, fu pubblicato per la prima volta nel 1954 e apparve subito, con la sua dirompente carica polimorfica (si tratta di una raccolta di materiale storico, etnologico e poetico sulla Sardegna), una sorta di summa della sardità, tanto da essere definita dagli intellettuali del tempo come: «il fatto più importante della cronaca letteraria sarda degli ultimi dieci anni (Antonio Pigliaru)»; e ancora: «il ritratto storico, morale, poetico della Sardegna, ricavato da una vasta quantità di elementi antichi, moderni e contemporanei» (Giuseppe Susini); «il breviario di tutto ciò che un sardo può conoscere e amare della sua isola», come l’ebbe a definire invece Giuseppe Petronio nel 1955, o «una libera, e a tratti scientifica, e a tratti poetica, immersione in una realtà che
vuole essere comunicata» come più recentemente ha detto Giuliano Manacorda. Tuttavia il libro, che è stato letto con troppe remore, non è stato ancora assunto del tutto come un messaggio, a futura memoria, dello scrittore.