Eo no isco chin cale
dulzura
mi ritirat sa terra ue
so nadu.
Matteo Madao
L’immobilità, che è dura a morire quasi quanto la
solitudine e la nostalgia, cede dunque al progresso. Alla lentezza biblica
s’incrocia la velocità: e chi vuole indugiarsi a camminare lungo i greti del
rimpianto, come accadeva a Giacomo Quesada, trovi almeno una sua rassegnazione all’urgere
del nuovo considerando le cose che hanno secoli e secoli, nate col segno dell’eterno.
I sassi e le rocce votive di Ulassai; le orme delle
capre sull’argilla e il loro festoso subbuglio alla vigilia d’ogni partenza
d’ottobre verso il Sud per il ritorno in maggio; l’eco di Morosini, che ripete
il fischio del trenino moribondo; le aquile, gli sparvieri, i colombi; le
foreste di Santa Barbara, santuario arboreo; la dignità dei fanciulli che non
rifiutano al forestiero un servizio o una cortesia, ma respingono come un
affronto un qualsiasi compenso.
Le case megalitiche e le rovine delle città vetuste.
I monastici cortili fioriti, e un ciuffo di palme, in
Campidano, per l’entrata di Cristo in Gerusalemme.
I tetti di sangue dei villaggi alpestri col fico,
l’olmo, il ciliegio per sentinelle.
I villaggi d’alta montagna coi balconcini pensili e la
quercia il mirto e la rosa.
La poltrona di trachite delle case dei villaggi
occidentali, alla quale fumare la pipa e conversare col vicino in pose
orientali.
Le pietre favolose degli animali che l’isola mai
conobbe: l’Elefante di Castelsardo, l’Orso di Palau, il Toro, la Vacca e il
Vitello di Sant’Antioco.
Il verde argenteo degli oliveti della contrada
turritana, punteggiato di cipressi; le valli incantevoli del Tirso e del Temo;
le feraci campagne d’Alghero.
Il campanile accanto alla chiesa e i campanilini sui
tetti dai quali sale il fumo azzurro.
Lo stazzo e il tormento granitico della Gallura.
Il mare congelato nelle colline dell’Anglona.
La catena del Marghine e il masso centrale su cui
domina il Gennargentu, diaframma alla Sardegna, come il Gran Sasso all’Italia,
che fu e non sarà più d’impedimento nei secoli all’unità dei Sardi.
I monti anacoreti e le confraternite di scogli.
Il selvatico Ortobene che è un gran concerto d’acque e
di foglie.
Le pianure di Giave, le prue dei toneri ogliastrini,
l’acropoli di Serrenti, i vulcani spenti.
I campi elisi degli asfodeli.
Gli stagni e le peschiere.
Le piramidi di sale e le catacombe minerarie.
I ponti e i manieri; le torri di Pisa e quelle
antisaracine.
I noci, i noccioli, i castagni, i corbezzoli, i
carrubi.
I giardini d’aranci.
Le chiese nelle contrade dai bellissimi nomi.
La conquista del vello del cinghiale.
Le danze, i canti, le ardie dei cavalli.
Le feste che domani saranno spensierate.
Terra antica e giovane, isola della resistenza; della
quale persino Giacomo Quesada, che pendeva alla malinconia e vi conobbe più
dolori che gioie, ebbe a dire negli ultimi suoi giorni che non sapeva andarsene
senza esprimere un ultimo desiderio che riconosceva, con suo rammarico,
impossibile; quello di nascervi un’altra volta, anche a costo di molto
soffrire.
Salvatore Cambosu, Miele amaro, Ilisso,
Nuoro 2004, pp. 368-369.