24 febbraio 2021

Omaggio a Ferlinghetti

Ricordo quella volta che da ragazzina ebbi un colpo di fortuna e, trascinata da amiche e amici più grandi di me, conobbi Ferlinghetti e praticamente l'intera beat generation.
Festival internazionale dei poeti, Castelporziano, nella lontanissima estate del 1979. C'ero, assai pischelletta ma c'ero, e fu indimenticabile e formativa la scoperta di così tanti e diversi geni della poesia mondiale: Ginsberg, Borroughs, Evtušenko, Soriano, Corso, Ferlinghetti...
Ricordo come in un sogno.
All'epoca conoscevo un pochino soltanto Allen Ginsberg, grazie all'allora givanissimo e con tanti capelli lunghi e biondi Tziu Maa, che ai tempi della quarta ginnasio mi passò una poesia sul percorso di un salmone, che mi sembrò meravigliosa: da adolescente mi incuriosiva tutto ciò che appariva "sperimentale", a-scolastico, mi di passi il termine. E conoscevo già Fernanda Pivano (che teneva insieme un po' tutti, in quell'incredibile notte) perché era la traduttrice della mia amata Antologia di Spoon River e dei primi romanzi di Hemingway: Il vecchio e il mare, Per chi suona la campana e Fiesta
Ricordo esattamente il momento in cui, nella spiaggia di Castelporziano, il palco stracolmo di poeti prese ad affondare sulla sabbia… Fu bellissimo!… In tanti, com'è noto, lessero l'incidente come una metafora del decadimento della poesia nella contemporaneità (si parlò di "culmine e agonia"), ma noi eravamo troppo giovani per pensare simili tristi cose: semplicemente ci divertimmo come pazzi! E da allora presi a leggere anche Ferlinghetti.

“Il mondo è un posto bellissimo in cui nascere
se non ti interessa che la felicità
non sia sempre
così divertente
se non fai caso a un po’ d’inferno
di tanto in tanto
quando tutto sembra andare bene
perché perfino in paradiso
non si passa tutto il tempo
a cantare."
(Traduzione di Lucia Cucciarelli per Crocetti Editore)
 
24 marzo 1919
22 febbraio 2021
 

9 febbraio 2021

Remo e Tonino

Cara B., dedicato ad annonnu tuo, eccoti un brano scritto da Giuseppe Fanciulli dopo un soggiorno a Orani nel 1922

«Erano con noi due grilli grandi, Tonino Siotto e Remo Branca; amici fraterni, entusiasti di ogni cosa bella (sebbene tutt'e due studino giurisprudenza a Sassari) in vario modo: che Remo esplode in meravigliose girandole, e Tonino sembra lasciare all'amico la cura dell'esprimersi, mentre con brevi parole, più ancora con cenni risoluti e col fuoco degli occhi, sottolinea, approva, e conferma. E l'uno camminerà nella incantata via dell'arte; l'altro, che pure conosce il mondo e ha una cultura così fine, resterà a curare le sue terre intorno al paesello di Orani, per amore e per esempio; non sembrano, questi due ragazzi, simboli della loro forte razza, rami di un ceppo solo? Così li ho veduti, e così li ricordo: in fiore.
Siamo rientrati in paese verso il tramonto, nell'ora più cara. Orani è adagiato in una stretta piega dei poggi, giallognolo e bigio; ma solcato dai venti che passano di corsa per la valle. A vederlo di fuori, pare che l'abbiano scaricato dal bordo della alta strada maestra; e allora, si capisce, le viuzze, le case, le piazzette, si sono fatte posto come hanno potuto, conservando un certo aspetto di labirinto arruffato, che piace al forestiero sempre desideroso di perdersi un poco. Molte di quelle case, a un solo piano, sembrano fatte con le carte; ma hanno quasi tutte cortili fioriti, e pergole ombrose. Le finestre, come in molti paesi sardi, hanno un'inquadratura di bianca calce, e così sembrano guardarci con gli occhiali. La gente è fitta. Passando dinanzi a quelli che sulla soglia si godono il refrigerio della sera, Remo dice: "Su friscu", che è il miglior saluto; e voci gravi, voci chiare rispondono con lenta mansuetudine. E bambini, anche qui, quanti! Tutti belli, Dio li benedica, come granati maturi. Ci venivano dietro a frotte, appena scalpicciando scalzi, come foglie nell'ala del vento.
E di casa in casa abbiamo fatto varie visite, ammirando. A Orani si possono ancora vedere di quelle vecchie cassapanche scolpite, che oggi non si fanno più, e sono una meraviglia: la decorazione ha fregi originali, e mutevoli, ricchi di quel gusto che la tradizione matura. In una stanza terrena ho veduto, insieme con le cassapanche un vecchio telaio sardo. La tessitura a mano è ancora molto in uso, in Sardegna; le donne dei paesi filano con rocche dalla conocchia finemente intagliata, quasi a ricordare le bifore e le cuspidi dei campanili pisani; fanno i "rocchetti" con strumenti primitivi dalle ricche decorazioni; e poi tessono l'orbace in telai assai più piccoli di quelli che un volta si usavano in Toscana (la mia nonna tesseva), telai che sembrano meglio dominati dalla tessitrice, e per questo ancor più domestici.
Qualcuno raccoglie le antiche tradizioni di bellezza, e risale ad esprimerle per tutti, in forme nuove.
Orani ha i suoi artisti. Mario Delitala, già noto in continente, è uno dei giovani pittori sardi meglio dotati; la sua casa, che ci fu tanto cortese, ha intere stanze da lui decorate, e mirabili opere. Ma ho dovuto stupire incontrando un artista che fa il calzolaio. Sicuro; Paolo Cosseddu, calzolaio, dedica tutto il suo tempo libero al devoto esercizio dell'arte. Non ha mai studiato disegno, non possiede strumenti, non ha avuto incoraggiamenti; e intaglia zucche — le belle zucche che son borraccia al pastore e al viandante — bastoni, còfani con un gusto meraviglioso; ha costruito un grande tabernacolo, di perfetta architettura, e un carro sardo graziosissimo. Rimpiange, tuttavia, di non aver mai studiato; e guarda il suo bambino per scoprire se affiora una vena d'artista... e se appena c'è, questa vena, oh lui studierà, non dubitate!
Di porta in porta, abbiamo fatto sosta anche nella casa che, tanti anni addietro, aveva ospitato Vamba; vi immaginate la nostra commozione nel parlare di Lui con chi ancora lo ricordava, fra le mura che lo avevano veduto? E il prof. Chironi, l'ispettore scolastico che ha uno spirito così poco scolastico e così arguto, ci riportava vicini quei giorni, ristabilendo inaspettatamente una nuova continuità col pensiero di Lui.
A sera, avessimo salito il monte, o fatto sosta alla vigna tutta verde e viola nella cornice argentea degli olivi, o fossimo rimasti in altre case a veder cose belle e antiche, a udire parole sagge e cortesi, tornavamo alla "casa nostra" con indicibile soddisfazione. Ci aspettava l'ospite: il cavaliere Pietro Paolo Siotto, un signore che porta i suoi settant'anni con eleganza (non potrei trovare un'altra parola), dritto e agile nel suo bel costume nero e bianca, parlatore colorito e acuto, cuor d'oro che scintilla nella fiera purezza dello sguardo. La sua casa, custodita da due donne silenziose, sorridenti e attente, è davvero "la casa". Si sentiva che fra quelle pareti massicce confluivano, come per naturale tributo, i doni della terra e delle anime. Tutte le cose buone della terra: frutta e erbe, pane e latte, vini ardenti e carni opime; tutti i buoni mòti delle anime: la fedeltà dei servi, la cordialità degli amici, il ricordo dei trapassati, e acceso su tutto, l'affetto del vecchio signore e del giovane nipote, che mi faceva pensare alla propensione della vite nodosa per il suo fresco tralcio.
In cima alla casa, alta come una torre, si apre una terrazza: vi abbiamo indugiato a mirare i grappoli di stelle. Orani, che non ha illuminazione, biancheggiava appena, lì sotto, nel buio: e dalla bocca di un forno si diffondeva una vampa rossa.»

(Grazie con con tutto il cuore al mio amico Angelino Mereu.)