23 agosto 2017

Controvento

Non sempre è possibile portare a termine il ritorno. Anche per questa ragione Ulisse, che ne era consapevole più di ogni altro, dovette sentire una certa gratitudine per Omero, mentre quello gli apriva, parola dopo parola, ostinatamente e caparbiamente, la via che a molti viene negata. Quando si viene cacciati dalla terra in cui si è nati, quando si perdono affetti e amici, non per questo, però, non perché non ci sia alcun Omero a ordire la via che ci riavvicina a ciò che si è perduto e a cui siamo ancora legati, non perché non ci vengono concessi i viaggi decennali da intraprendere, canti delle sirene da cui difendersi o giganti da accecare, ci si può concedere di rinunciare a un altro viaggio, un nuovo viaggio che faccia in modo che la vita, nonostante tutto, torni ad accadere. 
Federico Pace, Controvento. Storie di viaggi che cambiano la vita, Einaudi, Torino 2017 [p. 65 non num.].
Corone di nebbia sopra le Cale di Luna e Sisine

2 agosto 2017

Inoke, un'idea diversa

Inoke, un’idea diversa da’ ssustànzia/ assu biver dess’òmine. E peri in sa malidade/ dessa pèyur miseria, inoke, s’òmine/ non perde’ ddinnidade; finzas si a bbortas/ sa bida tendet assu lìmine estremu/ okros assa morte. Tottu, inoke,/ nos pode’ ggalu nòkere, e ttottu/ galu podet esser fattu,/ si kreska’kkada kosa assa misura ’ess’òmine.
Qui il senso delle cose dà sostanza/ agli umani rapporti. E perfino nella disgrazia/ della miseria nera qui l’umanità /non perde dignità; anche se a volte/ la vita tende al limite estremo/ verso la morte. Tutto, qui,/ ancora ci può nuocere, e tutto/ ancora può essere fatto, se cresca/ ogni cosa all’altezza dell’uomo.

Sono alcuni dei tanti versi che Antonio Mura, figlio di Maria Antonia Bande Ticca e di Pietro, ramaio di Isili e poeta tra i più grandi del Novecento sardo, scrisse negli anni Sessanta, dunque in un arco di tempo segnato dalle grandi trasformazioni di quei luoghi del Sud Italia e della Sardegna (ma non solo) in cui, in effetti, troppe erano le cose mancanti; ma altrettante – come anticiparono diversi e inascoltati intellettuali dell'epoca – erano quelle inerenti la cosiddetta cultura popolare che rischiavano di essere perdute per sempre nel passaggio alla modernità, perciò considerato anche violento. E chissà se non sia stata la stessa intuizione contenuta nei versi di Mura a guidare Eugenio Barba e l'Odin Teatret nel Salento (a Carpignano, un piccolo paese sulla strada tra Lecce e Otranto) e in Sardegna. Il collettivo multiculturale dei teatranti «indifesi nella piazza della vita», fondato da Barba a Oslo nel 1964 e trasferitosi in Danimarca nel 1966, si spostò a più riprese anche a Orgosolo e a San Sperate con l'idea di portare l'arte «in luoghi senza teatro», a stretto contatto con gli abitanti dei piccoli centri della Barbagia e del Campidano.
Vincenzo Santoro – responsabile dell'Ufficio cultura dell'A.N.C.I., impegnato da anni nell'organizzazione di iniziative sulle musiche e culture popolari del Mezzogiorno – ricostruisce la straordinaria vicenda artistica e politica dell'avanguardia teatrale in un volume appena dato alle stampe dall'editore romano Squilibri, realizzato d'intesa con la Cineteca Sarda-Società Umanitaria di Cagliari, nelle librerie dal 1° settembre: Odino nelle terre del rimorso. Eugenio Barba e l’Odin Teatret in Salento e Sardegna (1973-1975). Il libro, che con la citazione del capolavoro di Ernesto De Martino nel titolo espone subito il tenore della ricerca antropologica oltre che estetica del collettivo danese, esce con sostanziosi apparati: la prefazione di Eugenio Barba, 53 foto in b/n e a colori di Tony D’Urso, gli scritti di Antonio D’Ostuni e Antonello Zanda e un DVD allegato, contenente il meraviglioso documentario di Ludovica Ripa Di Meana, In cerca di teatro, e il film di finzione di Torgeir Wethal, Vestita di bianco, entrambi girati nel corso dell’esperienza salentina dell’Odin.
Durante la residenza sarda la compagnia imposta per la prima volta un'autentica interazione con gli abitanti dei paesi ospitanti, ovvero un genere di relazione che più tardi andrà definendo come “baratto culturale”: a ogni sua performance, infatti, i locali – uomini, donne, bambine, bambini e persone anziane – presero a rispondere con un canto tradizionale, un ballo, una festa, aprendo agli attori le case e i cortili durante i lavori quotidiani (nel libro anche una tavola fotografica che ritrae alla stessa altezza un teatrante seduto con un tamburo tra le ginocchia nella cucina dove una donna, anche lei seduta, inforna il pane) o nel tempo del riposo. In tal senso è particolarmente significativo il racconto della vicenda orgolese, durante la quale Eugenio Barba ebbe l'insight: alla fine della prima rappresentazione («in una scuola protetta dai carabinieri» perché il numero consentito di partecipanti era di 60, ma vollero entrare tutti!) di Min Fars Hus (La casa del padre) così disse agli attori un anziano presente allo spettacolo: «Era molto interessante, non abbiamo capito, siamo pastori... Voi cantate bene, adesso vi facciamo sentire come cantiamo noi». Si realizzò in quel frangente il prototipo del cosiddetto “baratto” (portare qualcosa ma per ricevere qualcosa), una tecnica che prese a essere considerata dal gruppo come fonte primaria di nutrimento, generatrice di nuove iniziative, progetti e imprese il cui centro erano sempre le donne e gli uomini incontrati nel proprio cammino, sino a fare dell'incontro l'essenza stessa del lavoro teatrale. Tante e diverse sono le testimonianze che il libro di Santoro riporta attingendo a fonti dell'epoca e a documenti d'archivio, restituendo l'emozione di un'esperienza destinata a lasciare un segno profondo nei protagonisti che ebbero la fortuna di fruirla.
Bastiana Madau, Storia della residenza sarda e salentina dell'Odin Teatret, in Il manifesto sardo, 1 agosto 2017.
Una delle immagini di Toni D’Urso contenute nel libro.