Non
avrei mai immaginato che rispolverare il sempre caro Jackie Élie
potesse farmi amare ancor di più lei, e invece è accaduto
esattamente questo. Tant'è che me li figuro insieme, mentre
chiacchierano davanti al camino, D&D, con qualche miliardo di
cose da dirsi. E semmai dovessero decidere di tenere insieme un
seminario nell'aldilà, io mi c'iscriverò di sicuro, appena arrivo.
Chiaro che non ho alcuna fretta. Intanto appunto con calma una mappa
che mi consenta di poter dialogare con gli esperti dei misteri della
scrittura deleddiana, o meglio: della loro soluzione, e più
precisamente con i filologi che si sono rivelati, dopo un pluriennale
e certosino lavoro, dei formidabili detective. In primis Dino Manca,
professore di filologia della letteratura italiana all'Università di
Sassari, autore di una strepitosa edizione critica di Cosima,
appena uscita per la Edes, in cui mette in luce – dopo un tempo
infinito! – i diversi “crimini” operati sulla volontà
dell'autrice con interventi sul testo originale di varia natura e
varia mano; e secondo – ma non in ordine di importanza rispetto
all'alta qualità della detection – il giovane
ricercatore Giambernardo Piroddi, autore di uno studio raffinatissimo
sulla Deledda pubblicista intitolato Grazia
in Terza pagina. Deledda elzevirista nel carteggio col «Corriere
della Sera» (1909 – 1936). Io non mi soffermerò
su nessuna delle opere in particolare (invito a leggerle), né sugli
aspetti più tecnicistici. Sono invece interessata agli
strumenti concettuali di cui si dotano i curatori delle edizioni
deleddiane e voglio delinearne alcuni che mi sembrano importanti per
inquadrare l'opera critica complessiva.
Al
fondo del lavoro filologico c'è una filosofia vicinissima alle
parole, ma a parole che innanzitutto sono cose. Nel volume che
inaugura la collana «Filologia
della letteratura degli italiani» e intitolato Tra
le carte degli scrittori,
Dino Manca, che ne è l'autore – eccetto per il saggio "Tra le
carte di Salvator Ruju", a firma di Gianbernardo Piroddi –
propone una
ricognizione documentata e ragionata di una parte della produzione di
testi e di avantesti di autori sardi vissuti a cavallo tra Otto e
Novecento e conservata presso la Biblioteca Universitaria di Sassari.
Queste sono le cose, i supporti fisici più prossimi agli autori
trattati nel saggio: Salvatore Farina, Pompeo Calvia, Sebastiano
Satta, Salvator Ruju e Grazia Deledda. Si tratta di manoscritti
autografi e idiografi che gli studiosi mettono sistematicamente a
confronto con le diverse, successive edizioni al fine di individuare
ed emendare eventuali errori legati alla loro trasmissione e
interpretazione. Abbiamo anche il manoscritto del romanzo L'edera
– uscito in edizione critica
per la collana della Cuec "Centro di Studi filologici sardi" –,
che Grazia Deledda donò alla Biblioteca sassarese il 24 agosto del
1914, originariamente in carte sciolte e poi rilegate con cartoncino
rivestito in pergamena e tela verde recante nel dorso la scritta a
stampa: Grazia Deledda [in
nero] L’edera [in
rosso]. E da questo oggetto prende avvio la raffinatissima perizia di
Dino Manca che attesta, ad esempio, che l’esemplare autografo
presenta numerose correzioni, aggiunte, varianti a margine o
nell'interlinea, soppressioni, sostituzioni, ecc., che attestano un
processo di elaborazione tormentato, ricco di ripensamenti. Il tutto
è messo a confronto con le edizioni a stampa già avvenute, perché,
alla data della donazione, L'edera era
già uscito in francese e in tedesco, nel 1907, e in italiano, in La
Nuova Antologia, nel 1908, a
puntate, ma lo stesso anno anche in volume. Insomma, c'è tutta
un'analisi minuziosa su quanto e come sia stato accolto nelle stampe
il processo di correzione, e direi anche che si tratta di un'indagine
davvero affascinante, almeno per me che amo la carta, la scrittura e
i suoi misteri, ma anche la loro detection. In primis, dunque,
questa sorta di Sherlok Holms che è il filologo, deve dotarsi delle
fonti più prossime all'emissione dei messaggi, cosa che hanno fatto
sia Dino Manca e sia – per la parte che concerne Deledda
pubblicista – Giamberndardo Piroddi
C'è
un secondo concetto guida al fondo del lavoro di ricostruzione e
interpretazione dei testi in cui mi sembra si possa ritrovare la
stessa ragion d’essere della filologia, e che consiste nello
stabilire «il certo dei testi» piuttosto che «il vero delle cose»,
ma inevitabilmente, poi, il confronto tra le due dimensioni si
interseca.
«La verità è verità testuale e la verità testuale è quella che
esprime la volontà dell’autore», ha
scritto Dino Manca. E le edizioni
critiche dell'opera di Grazia Deledda questa vogliono offrirci... ma
intanto prepariamoci.
Dentro
il testo cosa c'è?
In
principio c'è la parola e quindi la lingua.
E
la lingua che cos'è?
La
lingua è un sistema di segni geneticamente estranei
alla realtà extra-letteraria, cioè agli elementi storici,
concettuali o immaginari della realtà: quali correnti di pensiero,
nella realtà? Quale religione? Quale idea di letteratura? Quali
correnti artistiche? Quale realtà, tout-court? A questa è il testo
che rinvia, costituendo il materiale su cui lavora la lingua.
Andiamo
quindi a vedere cosa sia quel confronto, quella distanza tra il
«certo del testo» e il «vero delle cose».
Per
dire di questo secondo elemento è utile rammentare il mito di
ambientazione egizia che troviamo nel Fedro di
Platone (370 a.C.), e che Socrate racconta a Fedro, un giovane
ateniese appassionato dell'arte del discorso. Il
protagonista del mito è Teuth, il dio delle arti e dei mestieri, un
inventore dalle grandi abilità che il faraone era solito promuovere
con entusiasmo. Un giorno Teuth gli propone l'invenzione della
scrittura, spiegando che essa serve a ricordare, ma il faraone
stavolta non approva e dice di considerare la scrittura come
phármakon, una
formula vana e superba, nemica del vero, non essendo altro che una
copia sbiadita della voce che ripete senza ricordare, destinando
inesorabilmente gli umani ad allontanarsi dalla verità, che può
scaturire solo dalla parola detta in presenza dell’anima di chi
parla. E così rifiuta il dono del dio.
Duemilatrecento
anni dopo, da Parigi, è il suo collega Jacques Derrida che risponde
a Platone, confutando l'intera
tradizione filosofica occidentale che a suo dire è incentrata su
tale mito, che lui chiama fonologocentrismo,
cioè un mito fondato sulla centralità del logos come
voce, contrapposto alla
scrittura in quanto operazione in cui sussiste la totale assenza del
soggetto che l'ha prodotta e perciò lontana dal vero. Sulla base di
questo confronto tra presenza e assenza si rende possibile quel
fenomeno che Derrida chiama différance.
“Differanza” è la parola coniata dal filosofo per dire che il
segno
scritto è differente da ciò di cui prende il posto e, quindi, tra
il testo e l'essere a cui esso rinvia c'è sempre qualcosa che
differisce, uno scarto che non può mai essere definitivamente
colmato, ma lascia sempre soltanto tracce. In questa situazione il
compito del lavoro del filologo è quello di indagarle, di cercare le
tracce del vero
anche
fra le righe, nell'interlinea, nel non detto di cui il testo è
traccia; come dire: fra le pieghe di un'opera d'arte... In
un secondo senso, "differire" significa anche rinviare,
mettere una distanza. Il testo, infatti, gode di vita propria, si
rende disponibile al di là del suo tempo: è la scrittura in sé che
ne garantisce la sua decifrabilità, leggibilità e interpretazione
illimitate.
Stante
a quella distanza tra il «certo dei testi»
e
il «vero delle cose», l'interrogazione del filologo è
un'operazione assai complessa e affascinante. A maggior ragione
perché l’arte
del racconto, del romanzo, come l'arte tout-court, restituisce
all’oggetto che l'autore o l'autrice vuole rappresentare una nuova
luce e una rinnovata dimensione di sensibilità attraverso il
procedimento dello «straniamento», ossia mediante la sottrazione
dell’oggetto stesso che si vuole rappresentare dall’automatismo
del suo ordinario «riconoscimento», per riconvertirlo in «visione».
Al
fine di rendere concreto questo concetto prendo come esempio un'opera
visiva: la statua dedicata a Grazia Deledda con cui la sua città
natale ha voluto renderle omaggio. A proposito di prossimità alle
parole-cose e alla volontà dell'autrice, trovo che l'opera
realizzata dal Maestro nuorese Pietro Costa sia vicina alle parole di
Cosima.
Lo è nell'aurea complessiva che emana la sua forma assolutamente
femminile, nei particolari dello sguardo e dei lineamenti del viso,
così "lontani", come trascesi, di quella mano sinistra che
significativamente indica nient'altro che se stessa, nella
rappresentazione di un corpo-angelo, corpo-nave... Nella sua
complessiva tensione, ecco, penso che l'opera di Costa possa offrire
un'idea piuttosto autentica dell'impeto interiore che guidava la
giovinetta nuorese Grazia Deledda, alias Cosima, la quale sapeva, pur
senza conoscerla – perché sapere e conoscere sono concetti diversi
–, in perfetta e precoce solitudine, già da giovanissima sapeva
della straordinarietà del suo karma, ossia di un destino dovuto non
a chissà quali forze arcane e misteriose, bensì al complesso di
situazioni eccezionali che già creavano le sue narrazioni. Grazia
voleva varcare il mare, ogni mare del pianeta Terra, non solo il
Mediterraneo.
Ecco,
come al cospetto di
una statua, anche di fronte a un testo, noi non siamo di fronte
all'Essere, alla verità, al "vero delle cose", ma al suo
"simulacro", a una
statua dell'essere, a una
"parvenza" dell'essere. L'ordinario
«riconoscimento» tradotto in visione
è, dunque, un punto da tenere fermo, anche quando ci troviamo di
fronte a un artificio narrativo. E di ciò era pienamente consapevole
la stessa Deledda, come
ci fa capire anche Giambernardo Piroddi allorché, nel suo splendido
Grazia
in Terza pagina, analizzando
il carteggio che la scrittrice ebbe con Angelo Degubernatis (direttore
della rivista quindicinale illustrata italiana e straniera Natura
ed arte [Vallardi
di Milano, dal 1891]),
mette
in risalto come anche nell'orizzonte pubblicistico deleddiano vi fosse la piena consapevolezza della differenza tra facta
e
ficta,
tra realtà e finzione, tra il davvero
accaduto e
l'inventato, tra la cronaca e la fiction o, come la chiama Piroddi,
la «finzionalità
narrativa».
Ciò
detto è legittimo e, anzi, doveroso domandarsi dove poggia la
"visione" e quindi stagliare le proprie analisi in un contesto che
abbia precise coordinate storiche e geografiche, senza le quali
avremmo parole appese nient'altro che a se stesse con il rischio di
perdere la loro portata comunicativa. Così è importante conoscere
che Grazia Deledda inizia il suo
complesso percorso di formazione a Nuoro, piccolo borgo dell’ex
regno di Sardegna, antropologicamente connotato. E che fu quel mondo
che parlava sardo che Grazia Deledda osò tradurre con altri codici,
già consapevole di rivolgersi non al mondo a lei più prossimo (che,
anzi, non la capiva), bensì di volere comunicare con un mondo
distante dal suo, ma non perché volesse allontanarsene, tutt'altro:
la sua volontà era quella di comunicare a un mondo lontano che il
suo microcosmo era un universo: di sentimenti, di emozioni, di valori
e di ambiguità che già sapeva essere costitutivi non della gente di
Nuoro, non della gente di Sardegna, bensì della condizione umana.
Con questo sentimento del mondo e della vita Grazia attuò la sua
operazione artistica sul microcosmo nuorese e sardo, e fu la
traduzione in scrittura della sua Weltanshaung a rendere possibile
che l'isola entrasse a far parte dell’immaginario europeo. Quella
che era una realtà geografica e antropologica precisa si trasformò,
con le sue storie, nella "terra del mito", assurgendo a metafora
di una condizione esistenziale, quella del "primitivo" o del "primordiale". E ciò avveniva in un momento storico in cui la
cultura del Novecento stava recuperando a sé questa categoria. La
recuperava nel senso che dava valore al "primitivo" come il luogo
per eccellenza dove rappresentare il disagio esistenziale creato da
quel processo iniziato nella seconda metà del XIX secolo conseguente
all'espansione industriale e al progresso scientifico, che vide le
grandi masse contadine riversarsi nelle città. Gli artisti europei
del XX reagirono alle
trasformazioni della società moderna, agli eventi politici, alle
logiche illuministiche del Positivismo che negavano il riconoscimento
e la riconquista di una dimensione in cui tornassero ad avere
importanza anche le istanze individuali. E molti di essi trovarono
rifugio nei valori del primordio, alla ricerca di esperienze di vita
autentiche e originali: «Gauguin
le cercava a Tahiti, Van Gogh collezionava stampe giapponesi,
Picasso inventava il cubismo, ispirato all’arte tribale africana, e
lo stesso Paul Klee riprendeva la decorazione del tessuto africano».
Al
proposito è molto interessante la mostra
di 107 dipinti in
corso proprio in questo periodo al Museo MAN, intitolata Soggettivo
– Primordiale. Un
percorso nell'espressionismo tedesco attraverso le collezioni
dell'Osthaus Museum di Hagen,
che pone l'accento
sull'aspetto fondamentale che ha legato tra
loro le ricerche artistiche delle diverse correnti espressioniste: a
partire da una società massificata, appunto, la ricerca di valori in
cui tornasse ad avere importanza il singolo, con i suoi
sentimenti, i suoi stati d’animo.
Sono piuttosto convinta che Grazia Deledda parlasse anche a questa Europa e ne
fosse pienamente consapevole. Con le sue visioni
perturbanti, era esattamente nel cuore della produzione
artistica della crisi. Lo era con la potenza che emanava ogni fondale
scenografico su cui faceva muovere i suoi personaggi, con i paesaggi
come modulo narrativo per cui ognuno di essi, nella straordinaria varietà del paesaggio sardo, corrisponde allo stato
d'animo della o del protagonista; con la psiche rappresentata di
volta in volta con il vento, la notte che incombe, la descrizione di
una finestra vuota...; con le descrizioni che suscitano
l'idea di un'isola archetipo di tutti i luoghi – senza tempo o
imperniata di un tempo perduto –, l'idea di uno spazio ontologico
entro cui si consuma l’eterno dramma del vivere... Mi torna in mente
un componimento che Fernando Pessoa scrisse nel 1911, "Il guardiano
di greggi", compreso nella raccolta Una
sola moltitudine, perché calza
perfettamente con la prospettiva da cui Grazia Deledda guardava il
mondo:
Dal
mio villaggio io vedo quanto dalla terra si può vedere
dell’Universo. Per questo il mio villaggio è grande quanto
qualsiasi altro luogo, perché io sono della dimensione di quello che
vedo, e non della dimensione della mia altezza.
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© Mag |
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Locandina del convegno sulle prime edizioni critiche dell'opera di Grazia Deledda |