"Ho scoperto che la disciplina più difficile nella scrittura è cercare
di partecipare al gioco senza lasciarsi sopraffare dall’insicurezza,
dalla vanità e dall’egocentrismo. Mostrare al lettore che si è
brillanti, spiritosi, pieni di talento e così via, cercare di piacere,
sono cose che, anche lasciando da parte la questione dell’onestà, non
hanno abbastanza calorie motivazionali per sostenere uno scrittore molto
a lungo. Devi disciplinarti e imparare a dar voce solo alla parte di te
che ama le cose che scrivi, che ama il testo a cui stai lavorando. Che
ama e basta, forse.
Il talento è solo uno strumento. È come avere una penna che scrive
invece di una che non scrive. Non sto dicendo che riesco costantemente a
rimanere fedele a questi principi quando scrivo, ma mi sembra che la
grossa distinzione fra grande arte e arte mediocre si nasconda nello
scopo da cui è mosso il cuore di quell’arte, nei fini che si è proposta
la coscienza che sta dietro il testo. Ha qualcosa a che fare con
l’amore. Con la disciplina che ti permette di far parlare la parte di te
che ama, invece che quella che vuole soltanto essere amata."
Da un'intervista di Laura Miller a David Foster Wallace, 8 marzo 1996; traduzione di Martina Testa.
David Foster Wallace dice cose interessanti e, per quel che riguarda la mia esperienza come lettrice, giuste. Soltanto al termine di una narrazione che sento abbia ruotato intorno a un nucleo di verità – umana, artistica, sociale, sperimentale, "ale", ecc. –, frutto del disvelamento di una "dimensione speciale" (come la ha chiamata un amico con cui se n'è parlato, riferendosi a una dimensione artistica autentica), me ne sento arricchita. Più astrattamente, ho idea che i grandi scrittori non operino mai per abbagliare il lettore con esibizioni egocentrate, bensì, per riuscire a toccare anche il cuore e la mente altrui, scavino nella propria umanità, che è completamente un'altra cosa. E ci sono dei rischi personali, nel fare questo, ma sono anche rischi a cui un artista, con o senza apostrofo, oggi come sempre, probabilmente non può sottrarsi. E credo che noi possiamo essere in grado di leggere questa necessità, quando c'è, e, anzi, forse, di riuscire a coglierla e a empatizzarvi, quando c'è. Indirettamente, infatti, mi viene da pensare anche alla formazione (che non c'è) del lettore. Ed è lì che si alza la nebbia... Solo chi legge, ormai, può operare principi di individuazione dell'opera che ha qualche valore, nel mare magnum dell'attuale librificio, e arginare il rumore dei potenti uffici stampa che conducono a prodotti banalmente di consumo. Non accade, naturalmente, non accadrà. Ciò significa che l'attuale "doping della letteratura" (cito Filippo La Porta, Manuale di scrittura creatina. Per un antidoping della letteratura, Minimum Fax, 1999), cioè il fenomeno delle opere costruite a tavolino o "gonfiate" per il mercato, si presenta come un fenomeno inarrestabile. Pertanto non è più certo, come solitamente si dice, che a sopravvivere – sino a essere tramandate ai posteri – saranno le narrazioni non dopate, quelle universalmente necessarie. In tal senso, oggi meno che mai abbiamo certezze. Lo stesso discorso sulla "salvezza", se così si può chiamare, vale anche per le idee (che muovono i fatti), e, al limite, per le persone.