5 gennaio 2010

Imperfetta, umana

"Alle cinque e mezzo del mattino Berchidda dorme ancora in lontananza e solo i pastori escono con le 4x4 a radunare le greggi per la mungitura mentre a Tucconi il mondo animale è già in fermento. Le valigie sono pronte. […] La borsa nera del computer e al Reunion Blues con dentro la tromba e il flicorno sono già vicino alla porta d'ingresso al piano terra mentre la valigia grigia è ai piedi del letto in attesa di essere chiusa.
Anche stavolta mia madre ha insistito perché mi portassi un po' di provviste: pane ladu comprato fresco la mattina dal giorno prima, qualche dolce fatto in casa e due grandi melograni colti dall'albero del giardino. Mentre sistemo meglio le ultime cose scorgo però, nascosto in mezzo ai vestiti, un barattolo di bonbon alla menta che lei ha comprato da Germana e che ha camuffato con arte. Sa che ne sono goloso e che mi fa piacere, anche se faccio finta di arrabbiarmi.
In fondo non capita spesso che io prenda un volo per Bologna e bisogna approfittarne. In generale da Olbia parto per chissà dove, e a volte prima di tornare a casa, nella città emiliana, passano intere settimane durante le quali giro in lungo e in largo l'Europa e il mondo.
Esco dal bagno e provo a chiudere la valigia. Dopo un paio di tentativi, sedendomici sopra cerco di coordinare, con pazienza certosina e movimenti ormai rodati, la pressione ritmata del peso esile del corpo con l'ostilità meccanica delle cerniere laterali e poi di quella centrale che, finalmente, si chiude ansimante.
Scendo la scala di legno con movimenti lenti e accorti, accendo la macchina del caffè e controllo che tutto sia in ordine. […] Bevo il caffè di fretta, con i pensieri rivolti al viaggio e con Lola che scodinzola semiaddormentata sullo zerbino.
""Bene, posso finalmente lasciare la casa," penso, e a questo pensiero esco trascinandomi appresso i bagagli dopo aver chiuso a chiave la porta a vetri stile inglese che dà sulla veranda.
È ancora notte fonda, e la campagna respira di ombre fantastiche e rumori familiari. Quelli dei campanacci del gregge di Trotto, il terreno dei nostri confinanti, con le pecore venute a dormire protette dalla chijura naturale di selvatico, la siepe che divide le rispettive tanche. Quello degli zoccoli dei cavalli che già scalpitano in attesa delle prime luci dell'alba e dell'arrivo di mio padre con la sua Panda bianca scalcinata. E quello di un treno merci solitario che taglia la stretta valle unendo Chilivani a Olbia e al mare passando dietro la cantoniera rossa, ormai rudere, di Tucconi.
Lola mi segue e, come sempre, posa le zampe sulle mie ginocchia. Subito arriva scodinzolando anche Nuvola, ingelosito. Infilo senza troppa attenzione le valigie nel bagagliaio della Tipo bianca, chiudo il cigolante cancello di legno, spengo le luci del viale e mi metto in viaggio, lasciandomi alle spalle, nello specchietto retrovisore, il profilo di casa, il monte Limbara e l'imponente punta Giogantinu.
Percorso il primo tratto di strada sterrata che si snoda tra le querce e i graniti, svolto sulla vecchia provinciale per Olbia e al bivio di Monti mi immetto nella strada a scorrimento veloce, a quell'ora deserta.
I pensieri vagano nel quasi giorno e come spesso accade riassumo le cose fatte a Berchidda mentre procedo a velocità costante sulla strada sgombra. Penso ai miei che si fanno sempre più grandi, alla terra dell'infanzia che deve necessariamente avere un futuro e penso alle difficoltà del festival "Time in jazz" e a coloro che da anni ci lavorano.
"Chissà se durante questi pochi giorni passati a casa ho fatto veramente tutto quello che era necessario," mi dico. L'impressione è che non ci sia mai tempo a sufficienza e quando parto da Berchidda ho spesso la sensazione di non aver vissuto abbastanza. So anche che ritornerò presto, ma che sarà uguale.
Superato il bivio per Telti mi lascio condurre per inerzia lungo la discesa verso Su Canale incontrando solo un paio di camion e una macchina che mi fa i fari. I pensieri vanno a ruota libera e rubano spazio alla realtà facendomi dimenticare di inserire gli anabbaglianti.
Nel lungo rettilineo pianeggiante che porta a Enas accelero un po'. "Non che ci sia fretta, ma è sempre meglio arrivare un po' prima," dico tra me e me abbandonando per un attimo gli altri pensieri. L'ereoporto è già visibile sulla destra e, se ci fosse un po' di luce, potrei vedere davanti a me l'isola di Tavolara.
Invece vedo solo due fari in lontananza e proseguo inseguendo i miei ragionamenti della prealba fino a quando la traiettoria di quei due fari cambia repentinamente e in un attimo mi sono addosso.
Un rumore sordo. Non di lamiera, ma talmente secco da non darmi nemmeno il tempo di togliere il piede dall'acceleratore. Mi rendo conto che in quell'istante un bolide mi è venuto addosso a velocità folle e che mi è passato talmente vicino da tranciarmi di netto, come un machete, lo spechietto laterale sinistro. Da parte mia neanche un susssulto. Non un battito accelerato. Proseguendo alla stessa velocità di crociera guardo nello specchietto retrovisore e vedo il rosso dei fanali posteriori dell'auto che avrebbe potuto uccidermi proseguire tra le corsie sbuffando, arrancando e scartando scompostamente come un toro ferito.
Arrivo al parcheggio dell'areoporto. Prendo le valigie dal bagagliaio e chiudo la macchina annotando mentalmente il numero del posto. È il 326, lo stesso della combinazione della mia valigia. Spedisco un sms a mia cugina Liana che recupererà l'auto questa mattina stessa, ma prima verifico rapidamente il danno subito.
Non solo lo specchietto di sinistra è stato tranciato di netto, ma prima di arrivare a disintegrarlo quell'alta macchina mi ha lasciato una lunga riga scura sulla fiancata del cofano. È passata parallela alla mia Tipo, a neanche un dito di distanza. Sono vivo per miracolo.
Quando arrivo a Bologna, visibilmente scosso, racconto tutto a Sonia, mia moglie, che mi aspetta in areoporto con la vecchia Mini. Non sono in me e lei se ne accorge subito. Sono ancora lì con i bonbon alla menta di mia madre, con Lola che scodinzola aggrappata alle mie ginocchia e con quell'immagine dei fari che si fa sempre più definita fino a confondersi con l'orizzonte fotografato e archiviato nella mia mente dall'obiettivo dello specchietto retrovisore.
Ora so di essere un miracolato. Quella stessa mattina vengo a sapere da mia madre che una macchina scura si è schiantata a quindici chilometri da Enas in direzione di Oschiri alle cinque e cinquanta. Al volante, ubriaco, c'era un ragazzo di Berchidda. È morto sul colpo e io lo conoscevo."

Paolo Fresu, Musica dentro, Feltrinelli, Milano 2009, pp.11-15






3 commenti:

Paolo Curreli ha detto...

insomma è di questi giorni
il triste racconto della morte
di una giovane promessa
dell'industria sarda del buon vino
che mi ha molto rattristato
mi sono persino iscritto al gruppo per la ssasari olbia
per poter dire che sarebbe anche opportuno correre di meno
e che ci fossero almeno i treni su quelle rotte
sono stato preso per scemo
pare che la velocità
come affermazione di se stessi
sia una ideologia intoccabile
e chi la critica viene allontanato nell'angolo delle vecchiette accanto alla stufa con l'uncinetto
pensare che la vita di un grande artista sia messa in pericolo
da un paio di ubriaconi
con la golf nera da sindrome di diabolik
mi fà imcazzare
le vite non sono tutte uguali
mi dispiace dirlo
ma mi pare che sia proprio così
almeno un guardrail
ci seperi da questi folli

bianca ha detto...

Non c'è strada al mondo che fa più paura della Sassari-Olbia, soprattutto di notte. Una follia che sia ancora in quelle condizioni di altissima pericolosità, dovuta a un inconcepibile, colpevole, ritardo politico. Settantaquattro morti dal 1995 a oggi.
Condivido ogni tua parola, ed è esattamente per mettere in evidenza questa denuncia che dal libro di Paolo Fresu ho scelto quelle pagine – bellissime, secondo me. Dalla descrizione di gesti e pensieri semplici si evince un modo di vivere e percepire le cose - le persone, la natura, gli animali, il lavoro proprio e altrui, il proprio corpo - che niente ha a che fare con quella che tu definisci "la sindrome di Diabolik" e che concorre a trasformare le strade - e quella in particolare - in una trappola mortale. E sento che sono state scritte anche per riflettere su questa follia e sull’assenza materiale del suo argine: che si chiami guardrail, rifacimento del manto stradale, collocazione di autovelox e quant’altro.

bianca ha detto...

Passa lento...