Certamente la violenza esiste. Un uomo è insieme libertà e fatticità: egli è libero, ma non di quella libertà astratta che ponevano gli Stoici, è libero in situazione. Si deve distinguere qui, come ci suggerisce Descartes, la sua libertà e la sua potenza; la sua potenza è finita, e dall'esterno è possibile aumentarla o ridurla: si può gettare un uomo in prigione, farlo uscire, tagliargli un braccio, prestargli delle ali. Ma la sua libertà rimane in ogni caso infinita; l'automobile e l'areoplano non mutano in nulla la nostra libertà e nemmeno le catene dello schiavo subiscono mutamenti: liberamente egli si lascia morire o raccoglie le proprie forze per vivere, liberamente si rassegna o si ribella, sempre si supera.
La violenza può agire soltanto sulla fatticità dell'uomo, sulla sua esteriorità. Anche quando lo ferma nel suo slancio verso il suo fine, la violenza non lo colpisce nel suo stesso cuore; infatti egli è ancora libero di fronte al fine che si proponeva; voleva la sua riuscita senza confondersi con essa, può trascendere il suo fallimento come avrebbe trasceso il suo successo. Ecco perché, anche, un uomo fiero rifiutava la pietà come rifiutava la gratitudine: egli non è mai appagato, ma non è mai disarmato, non vuole che lo si compianga: è al di là della sua felicità, come della sua infelicità.
Simone de Beauvoir, Pirro e Cinea, in: Per una morale dell'ambiguità, traduzione di Andrea Bonomi, Garzanti, Milano 1975, p. 169.