Erano i tempi dell’università, avevo 21 anni e durante l'inverno avevo come sempre cercato e trovato un lavoro che mi potesse consentire di viaggiare l'estate senza dover ancora pesare sui miei. Così in quella stagione, per tre pomeriggi alla settimana, mi recavo da Piazza Sempione al quartiere Prati, a casa di un anziano oculista di origini polacche – ebreo di Varsavia, di idee comuniste – per ascoltare e trascrivere, con la vecchia ma perfettamente funzionante Olivetti che mi aveva messo a disposizione, il lungo racconto della sua infanzia, del matrimonio fallito, dell'incasinatissima famiglia d'origine e del suo sterminio… Non so che fine abbia fatto il dottor D., che a giugno dello stesso anno partì in Svizzera dov’era solito passare l'estate. Io non volli seguirlo, soprattutto perché avevo capito che più del suo racconto era il bisogno di essere ascoltato che non avrebbe avuto mai fine.
Lo ricordo con affetto e anche con gratitudine, per avermi aperto al suo presente fatto di piccole cose. Abbiamo fatto più volte “colazione” insieme (lui chiamava così, con vezzo antico, quel che per me era un normale pranzo). Certe sere mi chiedeva timidamente di fermarmi a cena, e una volta accettai. Fu grazie a lui che scoprii la bontà del pane azimo, dello yogurt greco, di certi biscotti che gli preparavano le amiche, suore del Vaticano. Era il medico degli occhi del Papa di allora.
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