24 gennaio 2017

Luminosa audace e ardente


Alessandra Pigliaru,"Clara, Mirina e altre storie", in Gli occhi di Blimunda, 22 gennaio 1917.

Luminosa audace e ardente, così Christa Wolf descrive l’amazzone Mirina, una delle protagoniste del suo romanzo Cassandra. Aveva però negli occhi anche una certa nostalgia. Di quelle acute, osserva Wolf. Così la strana creatura dalla fisionomia chiaroscurale che non credeva nelle predizioni, fedele compagna di Pentesilea, metteva a repentaglio il proprio corpo tutto nella lotta per la verità. Clara Gallini, scomparsa ieri all’età di 85 anni, aveva scelto proprio il nome Mirina per la gatta che da anni le faceva compagnia nella casa romana in via Sant’Antonio all’Esquilino. Una piccola viuzza, riparata dal frastuono del quartiere e tuttavia popolata da una moltitudine di storie. «Il romanzo di Christa Wolf mi era talmente piaciuto, il nome Mirina però l’ho scelto non per ricordarmi del suo carattere indomito ma per la dolcezza del suono». Schiva e pur sempre diretta, Clara Gallini non amava i convenevoli né le noiose formalità, sia dell’ambiente accademico che mondano. E in quel pomeriggio tiepido, si distingueva bene che di Mirina anche lei possedeva qualcosa di profondo. Nella sinuosità della figura, infine nel coraggio irriverente della sopravvivenza a una malattia che l’aveva ultimamente provata nel corpo, lasciandole tuttavia la cosa più importante, una mente dotata di un acume eccezionale. Ne dà prova nel suo ultimo libro, Incidenti di percorso, pubblicato con lungimiranza da Nottetempo quando, nell’incontro con l’allora direttrice Ginevra Bompiani, pensò di scrivere cosa le era accaduto. Ne viene fuori un resoconto che è diario di intensa auscultazione interna e osservazione partecipata di cui però, a differenza degli ambiti di cui si era fin lì occupata, il soggetto era lei stessa. Si era fatta campo di indagine e maestra di invenzione, ancora una volta. Era riuscita a intravvedere nella malattia e nella cura esperienze ineludibili, nel doppio passo della fragilità e della gaurigione.
Clara Gallini è stata per l’antropologia culturale italiana colei che ha dissestato di meraviglie il terreno arato lasciato da Ernesto De Martino. Conosciuto alla fine degli anni Cinquanta è grazie a lui che arriva in Sardegna la prima volta. A Cagliari comincia a insegnare al liceo Siotto Pintor e contemporaneamente fa da assistente volontaria alla cattedra di Etnologia e Storia delle religioni. Sono anni difficili per una giovane donna lontana da casa, lo sguardo però e il sorriso sono rimasti gli stessi di sempre. Lo testimonia una piccola e bellissima scultura, tenuta accanto a una scatoletta acquistata da un pastore di Dorgali negli anni Sessanta. Capelli corti e quel cenno nella bocca che racconta una ironia malinconica e saggia, l’amico architetto milanese che per diletto l’aveva scolpita aveva individuato di lei i tratti essenziali. Riconoscibili anche nelle introduzioni magnifiche che Gallini fa in video nel 1977 per due documentari Rai di Luigi di Gianni sui rituali nella possessione: «La festa – dice – è il momento grande e corale in cui le masse subalterne esprimono i loro bisogni, denunciano la loro miseria ma anche elaborano delle forme di riscatto culturale che danno loro dignità». Sono certo modi per ricordare la lezione di De Martino ma anche per proseguire nella vicinanza appassionata con la cultura popolare e la civiltà contadina da cui Gallini ha mostrato sempre di essere ispirata, marxista e gramsciana convinta come è stata.
È in Sardegna che comincia a fare le prime esperienze – rimaste poi cruciali anche dopo la sua partenza dall’isola alla fine degli anni Settanta alla volta prima di Napoli (all’Orientale) e poi a Roma (alla Sapienza). Compone le prime sue opere sulla scia demartiniana anche se, salda la misura dell’autore di Sud e magia, si discosta in modo originale, aprendo a nuovi sentieri interpretativi. È del 1966 I rituali dell’argia, poi Il consumo del sacro (1971) e Dono e malocchio (1973). Scomparso De Martino nel 1965, Clara Gallini ne assume la cattedra. Sono anni fulgenti, in cui alla produzione scientifica, al metodo rigoroso che non ha mai abbandonato, si aggiungono gli incontri sia universitari – basti pensare alla gloriosa scuola antropologica di Cagliari che si andava configurando – e le sue conoscenze nella Sardegna dell’interno, introdotta in parte da Raffaele Marchi e Giovanni Canu. Nel quadro di quest’ultimo che ritrae il rito del fuoco di Sant’Antonio a Mamoiada nel 1962 – e che anche oggi si trova nella casa romana dell’antropologa, al centro della sala dove amava sedersi per chiacchierare – c’è l’elemento che ha contraddistinto le sue ricerche in Sardegna: il mutamento e il passaggio alla modernità, una comunità, quella sarda in questo caso, che subisce la trasformazione del ricordo, immersa nel rosso è l’intensità tra elemento religioso e pagano.
È del 1981 la prima edizione di Intervista a Maria (poi la seconda nel 2002 per Ilisso con una bella introduzione di Bastiana Madau), un testo decisivo, spiazzante che restituisce un altro pezzo di quell’isola amata che l’ha accolta. Il colloquio, commissionatole inizialmente dalla terza rete Rai per la trasmissione radiofonica Noi, voi, loro, donna (che prevedeva 15 puntate) era avvenuto tra il 2 e il 
6 ottobre del 1979 a Tonara. «Maria aveva 70 anni e mi era stata presentata da amici comuni. Volevo capire a fondo la trasformazione della famiglia – racconta Gallini – e quindi provai a restare nel paese per un paio di settimane ma nessuna, oltre lei, mi concesse udienza. Ero forse percepita come l’estranea. Eppure con lei è stato uno scambio intenso e di reciproco affidamento, anche simbolico, tanto da desiderare il doppio nome come autrici del libro, il mio e il suo, che però l’editore non approvò. Nonostante Maria avesse concesso la sua voce per un programma nazionale, quando uscì il libro si rifiutò di parlarne in una sala di Tonara. Questo apre il problema di come l’appartenenza alla propria comunità ti renda più o meno vivibile il quotidiano».
I volumi che ha scritto sono numerosi, La sonnambula meravigliosa (1983), Il miracolo e la sua prova (1998) ma anche Cyberspiders (2004), Croce e delizia (2007) e tanti altri. Immaginario razzista, apocalissi culturali, forme di comunicazione fino al web e ai suoi strumenti. Al fondo di tutto c’era però una disposizione alla costante discussione critica, riconoscibile in una generazione che ha vissuto il Novecento e che ne è stata protagonista e osservatrice. Una disposizione, potremmo chiamarla anche attitudine, che non ha lasciato sola Clara Gallini fino agli ultimi giorni della sua lunga vita. Un essere nell’impegno del presente, immersi nella sua complessità, intravvedendo l’impossibilità di essere indifferenti. Questo punto per Gallini era ancora più palpabile perché si è sempre innervato in una quotidianità che ha scelto di vivere con riserbo, senza sbandierarla come spesso si impone nel consumo veloce e rimasticato contemporaneo. Ecco, è proprio qui, all’altezza di una intransigenza tutta del pensiero in movimento, nella danza ironica tra soggetto e oggetto che Clara Gallini ci consegna la sua lezione più importante. Tutta gramsciana nella movenza, e infine luminosa audace e ardente come il giuramento di un’amazzone.
Maria Lai, Donna al lavoro, 1958.

21 gennaio 2017

Bette zarra

Mi è sempre piaciuta la parola *zarra*, che significa *ghiaia*, ma assume un significato differente se usata in un contesto morale, diciamo, e quindi, ad es.: "est achende zarra" (sta facendo ghiaia), "agambandhela de acher zarra" (smettila di fare ghiaia), "bette zarra!" (che ghiaia!). Insomma, è usata anche nel senso di gazzarra (dall'arabo ghazāra ‘profusione’, sec. XIV), e quindi "chiasso", "confusione".
In questo senso *zarra* è un onomatopeico, no? Non è facile, infatti, camminare in un vialetto di ghiaia senza fare zarra.
Più o meno, con riserva di cantonate,
sempre per restare in tema edile... e anche perché codesto post è dedicato a una preda!

17 gennaio 2017

Lascia che fiocchi

Tziu Juva', es vrittu e vorzis viocat.
La legna ce l'ho, il capretto pure. Lascia che fiocchi.

Gasi navat su poveru Juvanne Mele.
Arribat su nive.
Apustis de un urdu nche lu vìene andandhe in campagna chi nd'una unichedda (sa cocca) a chircare carchi usticciu de ponnere in su ocu.
Mischìnu, no aviat abba in istèrgiu.*

Tziu Meleddhu, muratore, parlava in italiano; diceva "mi cocio un capretto". Il mio amico Italino dice: "Più che altro lo faceva per darsi un atteggiamento signorile, per vantare esperienza in campo edile. Non era sposato, abitava nel rione Gusei, era una persona mite, buona e ottimista, un bel personaggio: chi lo ricorda ne parla con affetto e simpatia."
A Orani, paese di artigiani, era famoso soprattutto per avere detto "maledetta precisione".

*- Zio Giovanni c'è freddo forse nevica.
 - La legna ce l'ho, il capretto ce l'ho. Lascia che fiocchi.
Così rispose il povero Juvanne Mele. Venne la neve. Dopo un po' lo videro andare per le   campagne con una funicella a cercare qualche sterpo da bruciare nel camino.
Poverino, non aveva acqua nella brocca.
Orani, 1958. Foto di Carlo Bavagnoli, inviato da Life in occasione di una mostra di sculture di Costantino Nivola allestita nelle vie del paese. Le persone ritratte c'entrano nulla con il personaggio dell'aneddoto; sono solo io che Tziu Juvanne Mele lo immagino come l'uomo che accarezza la scultura: "maledetta precisione" :-)

13 gennaio 2017

Parlo della quiete, il riserbo

Morandi

Parlo della quiete, il riserbo
di un centrotavola di porcellana, un vaso lacrimale, una brocca.

Parlo dello spazio, che ha una sola faccia,
inesaudita, lasciata a essiccare.

Parlo della tempera, della forma, del vuoto
a cui questi oggetti stanno di sentinella, e da cui scaturiscono.

Parlo del peccato, goccia rossa, goccia bianca,
della sua deformazione e curvatura, che è azzurra.

Parlo di bottiglie, di rovina,
e di quello che usiamo per illuminare la tenebra, e del perché…
 


Da Italia di Charles Wright [Pickwick Dam, Tennessee, 1935], traduzione e cura di Damiano Abeni e Moira Egan, Donzelli, Poesia n.61, Roma 2016.

Luigi Ghirri. Studio Giorgio Morandi, Bologna.

12 gennaio 2017

Per restare

Mi aveva chiesto di scrivere una nota introduttiva per la riedizione della sua raccolta di racconti. Gli dissi di no, perché trovavo ancora importante e vera l'analisi che già Grazia Cherchi fece di Sardonica nel 1985, quanto presentò il libro all'Istituto Orientale di Napoli. "Come introduzione mettiamo il suo commento, Giulio, io non potrei fare di meglio, e poi è anche un modo per ricordare lei, che era una grande". "D'accordo", rispose, "sai anche come dire di no". Era il mio più grande sì, invece, lui lo capì, perché quelle parole volevo farle conoscere, volevo che restassero: uno dei motivi d’interesse più grandi verso l'opera narrativa di Angioni, secondo Cherchi, è il fatto di non occuparsi di «personalissimi, particolarissimi tormenti [...] o, per dirla con Vittorini, di "astratti furori", ma di "sondare il tempo"». E non è proprio questo che dovrebbe essere o tornare a essere il compito principe della narrativa?
Ritrovavo nelle parole dell'indimenticabile scrittrice e curatrice editoriale la mia esperienza di lettura: le opere di Angioni erano illuminate dalla riflessione morale e civile, mai prescrittive, ideologiche o "moralistiche"; vi riconoscevo la memoria che Angioni dava ai personaggi, sempre intrecciata al racconto collettivo di un'umanità dolente, eppure non perduta, perché segnata – ancora, nonostante tutto – da un desiderio di mitezza, di vicinanza, da un'inguaribile speranza.

UN GESTO D'AFFETTO

Una mattina arrivò per posta il suo ultimo romanzo, tramite la Feltrinelli. Era Sulla faccia della terra. Giulio mi aveva fatto altre volte dono dei suoi libri, ma quello, in particolare, mi commosse: lo accolsi come un gesto d'affetto. Sostavo in una situazione piuttosto difficile, lui lo sapeva e non mancava di mostrarmi solidarietà. Capiva tutto. Eravamo amici. Lo diventammo allora, il periodo che fui anche sua editor per dei testi di antropologia e cultura materiale belli e complessi, per il libro su Fiorenzo Serra e, infine, per il suo lungo testo dedicato ai reportages sardi della fotografa tedesca Marianne Sin Pfältzer, che lui per un curioso lapsus chiamava imperterrito "Susanne", chissà perché. E lavorammo bene, insieme, con intesa su tutto. Non mancava nemmeno di onorarmi della sua contentezza per i cesellamenti, perché poi era una di quelle rare persone che ti faceva sentire veramente la gratitudine, anche per le più piccole cose, o sembravano piccole a me. C'erano delle affinità. 
Dopo il disastro in casa editrice mi è sempre stato vicino (uno dei pochi), incoraggiandomi, confortandomi, dicendomi che credeva in me. Anni prima aveva apprezzato un mio piccolo romanzo, Nascar: me lo rivelò durante un divertente convegno sassarese (divertente per me, che non capivo che ci facevo invitata come autrice insieme a tutti quei nomi) sull'onomastica nella letteratura sarda. Così era contento le mattine che rispondendo ai suoi "come stai?" con "bene, grazie, sto scrivendo". "Scrivi, scrivi, vedi che sei più brava di ...", e menzionava un'autrice di successo, che a lui non piaceva. "Ma forse anche un pochino meglio di...", celiavo io, menzionando un autore di successo, che non piaceva a me. Ridevamo leggeri, senza mai, nemmeno per una volta, veramente sparlare; semmai complici di qualcosa non contemplata astrattamente, un'idea di letteratura condivisa nei nostri scambi e confronti su tanti aspetti della realtà, della quotidianità, degli affetti, delle questioni alimentari. Capitava non fosse vero che stessi scrivendo e che, anzi, non fossi abbastanza in asse per riuscire a ordinare i pensieri. Ma non volevo si preoccupasse. Mi incoraggiava costantemente, in quel periodo, e fu felice quando l'estate scorsa uscì Simone per la Cuec.

COSÌ, DOPO CHE CI HA APPENA LASCIATO, MA PER RESTARE

Io non so se sono stata altrettanto capace con lui, ultimamente: avrei voluto fare di più... Non si è mai lamentato, tutt'al più un "sono un po' incasinato", com'era nel suo stile, sempre lieve. Non c'erano grandi scambi, infine, gli scrivevo poco, adesso, consapevole che l'attenzione intorno a lui era enorme, e non volevo rubargli energie (non l'ho mai voluto, soprattutto). L'ultimo suo messaggio nella chat di un s.n., qualche giorno fa: "Belle le tue cose postate di questi tempi. Su Berger per esempio. Parlacene ancora magari, così dopo che ci ha appena lasciato, ma per restare".
Stavi parlando di te, Giulio, non avevo capito, forse non lo capisco ancora... Che dolore, amato professore, caro, caro amico...

PER IL PANE DELL'ULTIMA VOLTA

Sulla faccia della terra mi piacque moltissimo. 
"Scrivine"
Stavolta non c'era nessuno a cui appellarsi. Lo recensii per un quindicinale on line caro a entrambi: Il manifesto sardo. Appena uscì mi arrivò un pugno di parole (o, forse, una carezza di parole?): "La tua recensione è la cosa che trovo più azzeccata e avvertita di quelle che leggo su questo mio libro. Commosso ti ringrazio". 
Ne copio e incollo uno stralcio qui, "così, dopo che ci ha appena lasciato...".

Il romanzo, a ben vedere, si sarebbe potuto intitolare anche Sullo specchio dello stagno: è infatti la grande laguna a ovest di Cagliari, che circonda e riflette nelle sue acque le piccole isole, la grande protagonista in cui l'Autore raduna e fa vivere in comunione i dispersi della guerra che impazza in terra ferma, dove genovesi e pisani combattono con le loro truppe mercenarie per la supremazia, bruciando i borghi e le città. Corre l'anno 1258; in una notte di luglio, Mannai Murenu, diciasettenne garzone di vinaio, si ritrova sepolto tra i morti nella presa e distruzione da parte dei pisani di Santa Gia, fiorente capitale del giudicato di Cagliari, ed esordisce parlando dei momenti vissuti fingendosi morto. Settant’anni dopo racconta, appunto, di come scampò alla carneficina rifugiandosi con altri compagni e compagne di sventura in una delle isolette dello stagno, già lebbrosario disabitato, dacché i lebbrosi erano stati letteralmente catapultati a infettare la città assediata. Isola Nostra, così viene nominato il luogo della salvezza dai suoi nuovi abitanti. Chi sono?
Si tratta di personaggi semplici e complessi insieme, mai stereotipati, essendo ciascuno il frammento unico di una storia che attraversa il tempo e lo spazio, dalla propria provenienza al proprio destino o destinazione (in spagnolo entrambi i concetti sono detti con uguale parola): Mannai Murenu, che conosce i sentieri segreti tra i canneti dello stagno – differenti a seconda del tempo e delle maree –, che pratica la respirazione appresa suonando le launeddas – utile a sopravvivere sott'acqua in caso di pericolo, con l'aiuto di una canna come boccaglio – e che sa interpretare il comportamento dei fenicotteri; due sediari nuoresi; Paulinu da Fraus, servo allo scriptorium di un monastero; la nobile ed enigmatica Vera da Turi; la giovanissima schiava persiana Akì; il vecchio saggio ebreo Baruch, bachicoltore e poliglotta, interprete e maestro delle lingue; tre soldati tedeschi di ventura; il burbero pescatore Tidoreddu, proprietario del “libro ascellare”, che in primis gli salvò la vita; il cane Dolceacqua, così chiamato perché sa scovare le polle di acqua potabile; il fabbro bizantino Teraponto; decine e decine di altri. Insieme prendono a vivere nell'Isola Nostra «in disordine e confusione» (secondo l'accusa del tribunale dell'Inquisizione, in epilogo al racconto, che bene non finisce...): cristiani, ebrei e musulmani, sani e lebbrosi, liberi e servi, nell'eguaglianza e nella solidarietà dettate non da prescrizioni, bensì dalla necessità. Così, al centro della narrazione, vi è lo sviluppo della vita comunitaria, protetta dal terrore che all'esterno ancora suscita la presenza nella piccola isola della presunta lebbra. Uomini e donne di diverse età, di molteplici nazioni e variegati talenti e competenze, portano ciascuno e tutti un contributo prezioso alla costruzione della nuova comunità; in sintonia, reciproco ascolto, comprensione, tolleranza e ragionevolezza. Ciò consente loro di salvarsi, crescere insieme, realizzare una convivenza collettiva non gerarchica. («Siamo diventati in poco tempo sapienti in differenze, in provenienze, in riconoscimenti di altri modi di stare al mondo»).  
Tra usanze e saperi, storia locale e universale, realtà e utopia, abitato da persone distanti per un anno dalla costante violenza in terra ferma, da chi sta in basso e chi sta in alto, nel racconto si stagliano gli abitanti naturali dello stagno: i pesci, gli uccelli, le erbe di terra e di acqua. Ma ciò che maggiormente concorre a dare uno spaccato tangibile dell'operosa umanità dei rifugiati è la multiforme cultura materiale, in un esempio di sensata e affascinante vita comunitaria mediterranea, certo lontana anni luce dalla distopia costruita da William Golding con Il signore delle mosche. É il “materialismo”, infatti, la consolazione infinita e dignitosa dei rifugiati dell'Isola Nostra, ostinati a esistere: «E rinasce lo scopo. C'è da nutrirsi, vestire, abitare. E trovare un futuro con un senso. Un senso pratico. Un-così-dev'essere-e-può-farsi. Discutiamo il da fare. Lì ci si ritrova tutti quanti. Lo scampo eccolo lì, per gente come noi». 
Così ancora si esprime una delle donne protagoniste in un frammento del romanzo, che cito anche per portarne il ritmo, perché quest'ultimo, insieme ai ricchi contenuti, concorre a formare la cifra della scrittura di Giulio Angioni: «Quella notte […] ho subito riconosciuto in voi non dei pericoli, non dei nemici, non dei maschi qualunque predatori. Ma ho visto in voi ciò che eravamo noi: figli della sconfitta, fuggiaschi come noi, capaci di speranza come noi. Vera e io abbiamo preso un ago e un ditale e un rocchetto di refe francese. Per rammendare i vostri vestiti logori, strappati, bruciacchiati. Per rammendare la vita di noi tutti. E un pezzo di pasta che stava fermentando nell'orcio di terracotta. Per il pane della prossima volta».
Un romanzo colmo di aforismi, reso assolutamente contemporaneo dalle metafore, puntellato di citazioni criptate nei curiosi nomi e toponimi, e in cui, soprattutto, ancora resiste l'idea che la salvezza è nel ricordo che diventa parola. (Bastiana Madau, “Ancora sulla faccia della terra”, Il manifesto sardo, 16 giugno 2015)

CIAO, GIULIO

Grazie di essere stato presente per un attimo del tempo immensamente bello e ricco della tua vita anche nella mia
Tu resterai per sempre, e non solo per i tuoi cari, per i tuoi allievi, per i tuoi tantissimi amici. Infinitamente resterai a questa terra, con le tue opere di luce.

Luigi Ghirri, "Paesaggi d'aria", San Pietro in Vincoli, villa Jole, 1986

11 gennaio 2017

Bolaño tutta la vita

In un quaderno ancora inedito lo scrittore cileno scrive queste parole, accompagnate da un disegno (sì, disegnava sempre intorno ai suoi appunti): "Imposible escribir poemas. Estoy enamorado."
M'incanta la sua lucidità, il modo di esprimerla, e mi sento di condividerla (esteticamente proprio), e naturamente mi piace il concetto. A far poesia quando si sosta in una condizione di "innamoramento" si rischia la deriva sentimentale, un mancato controllo della penna, diciamo, con esito visibilmente melenso, e talvolta addirittura nauseante. Non è affatto paradossale, infatti, che anche al cuore arrivino con più forza e autenticità quelle parole dettate alla penna dall'"occhio freddo" gettato sul mondo. E Bolaño lo sa, lo ha sempre saputo: la poesia non ha nulla a che vedere con il sentimentalismo.
Literatura para enamorados 2, manuscrito de Roberto Bolaño, junio, 1979. Archivo 24 – 121 © Herederos de Roberto Bolaño. Fonte immagine: Breve guía del Archivio Bolaño (para el lector sentimental).

9 gennaio 2017

Nevrosi

Quando prendo in mano l'ago e il filo per attaccare un bottone ci metto delle ore, per via del troppo filo (con poco filo non c'è gusto), e siccome mi dispiace sprecarlo, attaccato l'uno mi metto alla ricerca di altri bottoni da rafforzare, e tiro giù dall'armadio tutte le camicie e i cappotti. 
Cambio filo, e di nuovo, ancora, è sempre lunghissimo, così rafforzo pure dove, forse, non ce n'è così bisogno. Cambio filo. Stacco, sposto, riattacco. È ancora lunghissimo. Allora mi dispero, perché ho finito di controllare e rafforzare tutti i bottoni degli indumenti contenuti negli armadi di casa. Prendo, allora, a suonare i campanelli delle case dei vicini: "Avete bottoni da attaccare?".
Ho il tavolo pieno di camicie, ne avrò sino a Carnevale. Cambio colore. È lunghissimo.