31 maggio 2016

Un problema degli uomini

Vedo dai sondaggi che la violenza sulle donne è l'argomento numero quattordici tra le preoccupazioni degli spagnoli, nonostante si contino tutti i mesi sulle dita delle mani, e sfortunatamente non ci sono sufficienti dita, le donne assassinate da quelli che credono essere i loro padroni. Vedo anche che la società, nella pubblicità istituzionale e in singole iniziative civili, anche se un po' alla volta, si rende conto che è un problema degli uomini e che solo gli uomini lo devono risolvere. Da Siviglia dall’Estremadura spagnola ci è giunta notizia, qualche tempo fa, di un buon esempio: manifestazioni di uomini contro la violenza. Fino a oggi erano soltanto le donne a scendere in piazza per protestare contro i continui maltrattamenti subiti dalle mani dei mariti e compagni (compagni, triste ironia), che, mentre in moltissimi casi prendono la forma di fredda e deliberata tortura, non disdegnano l’assassinio, lo strangolamento, la pugnalata, lo sgozzamento, l'acido, il fuoco. La violenza da sempre perpetrata sulle donne ha trovato nel carcere in cui si è trasformata il luogo della coabitazione (ci rifiutiamo di chiamarla casa), lo spazio per eccellenza per l'umiliazione quotidiana, per il maltrattamento abituale, per la crudeltà psicologica come strumento di dominio. Il problema è delle donne, si dice, e questo non è vero. Il problema è degli uomini, dell’egoismo degli uomini, del malato sentimento possessivo degli uomini, della pigrizia degli uomini, questa miserabile codardia che li autorizza a usare la forza contro un essere fisicamente più debole e a cui è stata sistematicamente ridotta la capacità di resistenza psichica. Qualche giorno fa a Huelva, applicando le regole dei più grandi, alcuni adolescenti di tredici e quattordici anni hanno violentato una ragazza della loro stessa età affetta anche da una deficienza psichica, forse perché pensavano di aver diritto al crimine e alla violenza. Diritto a usare quello che consideravano loro. Questo nuovo atto di violenza di genere, più quelli avvenuti questo fine settimana, a Madrid una ragazzina assassinata, a Toledo una donna di trentatre anni uccisa davanti a sua figlia di sei, avrebbero dovuto far scendere in piazza gli uomini. Forse centomila uomini, solo uomini, manifestando per le strade, mentre le donne sui marciapiedi a lanciargli fiori, questo sarebbe potuto essere il segnale di cui la società ha bisogno per combattere, dal suo interno e senza scrupoli, questa insopportabile vergogna. E la violenza di genere, con o senza la morte, cominci a essere uno dei primi dolori e preoccupazioni dei cittadini. È un sogno, è un dovere. Può non essere un'utopia. 
José Saramago, L'ultimo Quaderno, traduzione di Rita Desti, Feltrinelli, Milano 2010, pp. 134-135. 

28 maggio 2016

Ricordo di Cosima

SE, sopo tanti anni, quel visitatore sonerà al cancello di Via Porto Maurizio, Cosima non gli verrà incontro ad aprirgli, come altre volte. Tante cose sono mutate; mutato persino il nome della via.
«Via Porto Maurizio: da questo porto siamo un bel giorno salpati, verso i mari gelati e le metropoli scintillanti ai confini della terra abitata. Da esso un altro bel giorno, in una barca d'ebano decorata d'oro e lieta di ghirlande e di rose, salperemo verso il paese dei cipressi, che ci sembra limitrofo ed è invece oltre i confini della terra ». (Così scriveva nel dicembre del 1927, dopo aver ricevuto il premio Nobel).
Dalle finestre della sua casa si vedevano i cipressi del Verano e i Colli Albani. Fiochi vi giungevano allora i rumori della città. Bastavano pochi passi, e si entrava nella campagna: una campagna che respirava tanto vicina da ridestarle spesso il ricordo dei luoghi della sua adolescenza, ai quali soleva ritornare d'estate.
Quel pomeriggio Cosima camminava lentissima sul sentiero di Valverde: parlava sottovoce dei colori della valle con un pittore che firmava con un ragno le sue tele e i suoi disegni. Solo si rammaricava di tanto in tanto non fosse con loro un poeta con gli occhi azzurri. Il poeta poteva camminare a stento lungo il Corso lastricato, al braccio di un amico; e talvolta avendo a fianco un giovane scultore che aveva dato vita a una madre dolorosa.
A una svolta ella chiese al fanciullo che cosa ne fosse stato di una casa lontana, dove egli era cresciuto, e che ella aveva conosciuta da ragazza: una di quelle case padronali piene d’abbondanza, di servi e di mendicanti. Quella casa era quasi un ricordo: era come sparita insieme con i grandi banditi e le epiche bardane, con gli amuleti e i fattucchieri, e i cercatori pazzi di tesori, e gli esodi migratori, e le diligenze lente e avventurose, e gli alibi raccomandati alla velocità dei cavalli. Da poco era arrivato il fustagno, con le cotonine e le tele stampate. Rara la cambiale e la bancarotta, sacra la parola data. A ogni ovile si poteva ricevere ancora pane e companatico, e un posto accanto al fuoco, e la stuoia, ma già l'usanza era minacciata dall'avvento dei caseifici e dei treni.
Il fanciullo, timido e malinconico di natura, le rispose con uno sguardo, nel quale ella lesse forse un nascente rimpianto d’un mondo che tramontava e lo consolò con una carezza e un sorriso di luna.
Salvatore Cambosu ricorda così la cugina Grazia Deledda, in Miele amaro. Racconti dettati a Maria Lai, Arte Duchamp, Cagliari 2001, pp. 99-100.

26 maggio 2016

Nihil humani a me alienum puto

Nell'analisi del calo del fatturato non sempre si può trascurare con leggerezza quella del mancato calo dell'avidità e dell'ingordigia di chi lo capitalizza.

23 maggio 2016

Io c'ero, posso raccontare...

Di che materia è fatta la memoria? La mia, se torno a quel 23 maggio del 1992, è fatta di odori, di scirocco, di pioggia, di lacrime. Arrivai a Palermo quasi direttamente dai palazzi del potere romano dove seguivo per Il manifesto le votazioni per il nuovo capo dello stato che si avvitavano su se stesse senza via d'uscita, dopo la trombatura di Giulio Andreotti tra le cui gambe era stato gettato, nel marzo di quello stesso anno, il cadavere del suo plenipotenziario in Sicilia, Salvo Lima, garante del patto tra la politica e Cosa Nostra. 
Questo adesso è un fatto acclarato, ma per averlo detto allora, insieme a Sandra Bonsanti, collega di Repubblica, nel corso di una rovente puntata di Samarcanda, la trasmissione di Santoro e Ruotolo, rischiai fisicamente il linciaggio da parte degli amici di Salvo Lima (che non erano esattamente tipi raccomandabili).
Mentre dall'aeroporto corro verso il luogo della strage incrocio in senso opposto il corteo presidenziale che sta riportando a Roma il vicecapo dello Stato, Giovanni Spadolini, che si lascia alle spalle la Beirut italiana e torna nei Palazzi in disfacimento. Simbolo di un sistema politico che sta cadendo sotto i colpi di Tangentopoli, nel quale la mafia sta perdendo i suoi vecchi punti di riferimento e ne cerca di nuovi. L'odore, lì a Capaci, è quello ferrigno della morte, della polvere rossa che il vento di scirocco trascina con sé nell'aria che sa di esplosivo, di catrame ancora caldo. Per terra, pezzi di tela militare sbattuti dal vento, due mazzi di fiori di campo poggiati su un cumulo di terra. Per duecento metri l'autostrada non esiste più, è stata cancellata, spazzata via. Ecco il grande cratere di terra rossa: qui sotto c'erano mille chili di tritolo, una potenza micidiale che ha sollevato l'asfalto che ora se ne sta ingobbito, dilaniato da quella forza devastante sprigionata dal suo stesso ventre.
La macchina sulla quale viaggiavano Giovanni Falcone e sua moglie Francesca Morvillo, è ferma sul ciglio del cratere, con il muso stritolato dalla furia del primo impatto, tutti i suoi congegni elettronici sono lì sventrati, oscenamente esposti. Poco più dietro, un'altra macchina della scorta messa di traverso e più in là un'altra ancora che sembra come schiacciata da una mano potente che scende dall'alto. Ecco, così sono morti Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Antonino Montinaro, Vito Schifani, Rocco Di Cillo.
Un cronista di Radiomontecarlo mi dice: «It's a war». Già, ma in questa guerra lo stato si ferma dopo ogni piccola battaglia vinta, mentre la mafia, giunta all'apice della sua potenza economico-militare, dispiega la propria onnipotenza e dice: io posso tutto, io posso assassinare come un cane, in mezzo alla strada, l'uomo politico che non ha mantenuto le promesse; io posso togliere di mezzo il giudice più protetto d'Italia, il mio nemico numero uno, quello che vi ha costretto a guardare di che cosa sono fatta davvero. E per farlo vi dimostro che posso, letteralmente, sollevare la terra sulla quale camminate.
Sapremo dopo che era così cominciata una trattativa che voleva revisione dei processi e abolizione del carcere duro. E che per averla intuita e disapprovata morì Paolo Borsellino. Falcone doveva morire perché aveva guardato il mostro negli occhi, ne aveva compreso il salto di qualità. Non più un insieme di cosche, ma un vertice che governa con il pugno di ferro, che ha intrecciato legami con pezzi della politica e dello stato. L'aveva detto, Falcone, dopo l'attentato fallito alla sua villa dell'Addaura, quando parlò di «menti raffinatissime» che l'avevano ordito. L'aveva detto nella sentenza del processo Maxi-ter a Cosa Nostra quando, parlando dei grandi delitti politico-mafiosi, Piersanti Mattarella, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Michele Reina e Pio La Torre, li definiva «omicidi in cui si è realizzata una singolare convergenza di interessi mafiosi e di oscuri interessi attinenti alla gestione della cosa pubblica, fatti che non possono non presupporre tutto un retroterra di segreti e inquietanti collegamenti, che vanno ben al di là della mera contiguità e che debbono essere individuati e colpiti se si vuole davvero voltare pagina». La condanna a morte di Giovanni Falcone sta tutta scritta lì. I finti amici di Falcone, i beatificatori postumi, quelli che prima lo chiamavano spregiativamente «il giudice sceriffo», «il giudice comunista», e che oggi lo additano ad esempio contro i suoi colleghi che ancora cercano la verità sulla stagione delle stragi, questi mentitori affermano che lui non credeva nei legami tra mafia e politica.
Era tutto il contrario: avendo compreso in quale trama di potere giocasse Cosa Nostra, Falcone cercava gli strumenti per poterli mettere a nudo. Ci provò dapprima con il suo lavoro di magistrato, finché non gli legarono le mani; poi cercando di cambiare dall'interno la politica giudiziaria, delineando la Procura nazionale antimafia. In questo cammino commise anche errori, forse sottovalutò la capacità di irretirlo del potere e sopravvalutò la volontà di taluni di combattere veramente la mafia.
Le critiche che gli vennero da chi era stato amico lo ferirono profondamente, ma erano fatte in buona fede e nascevano anche dalla preoccupazione che certe mediazioni, non solo non gli avrebbero consentito di raggiungere i suoi obiettivi, ma lo avrebbero esposto come ostacolo al patto di convivenza tra stato e mafia.
Mentre torno a Palermo, vent'anni dopo, rileggo quel che scrivevo allora, cercando di spiegare perché, dopo aver ucciso l'uomo del legame tra politica e mafia, Salvo Lima, Cosa Nostra avesse alzato il tiro sul suo nemico giurato: «Un atto di terrorismo mafioso... l'hanno fatto mentre il Palazzo viveva un passaggio delicatissimo: un'elezione presidenziale nel corso della quale si ridisegna l'equilibro del potere. Non c'è bisogno di pensare a complotti a trame oscure. Purtroppo è tutto tragicamente chiaro: un pezzo d'Italia che è Colombia e Libano. Con i piedi ben piantati qui, il potere mafioso alza la testa e guarda in alto, alla ricerca del suo posto tra i poteri, oligarchia armata che vive del deficit di democrazia e a sua volta lo alimenta».
Allora non sapevo, mentre tornavo a Palermo, tra l'odore delle stigghiole arrostite per strada e le ceste di pane, leggendo su qualche rudimentale cartello la scritta «Falcone sei vivo», non immaginavo che sarei dovuto tornare due mesi dopo, per la strage di Via D'Amelio. E che l'anno dopo la strategia stragista del potere mafioso avrebbe toccato il suo apice. Non ero consapevole che era cominciato il nostro 11 settembre, come mi disse dieci anni dopo la strage Andrea Camilleri, che intervistai per La7 : «Falcone e Borsellino sono i nostri eroi. È come se fossero cadute le nostre Torri Gemelle».
Ma non fu solo un giorno, una data: fu un biennio nel quale agì un intreccio tra pezzi della politica e delle istituzioni e poteri criminali che impresse una torsione nettamente antidemocratica alla transizione italiana e del quale ancora non siamo venuti a capo.
È questa l'anomalia italiana che non è mai stata superata e che, dopo l'attentato di Brindisi, ha fatto pensare Qualunque sia l'esito delle indagini su Brindisi, per questo è sacrosanta la ribellione alla violenza da parte dei giovani e del mondo della scuola. Anche se la mafia ha scelto di abbandonare la strategia dell'attacco militare, non per questo è meno pericolosasubito a un riproporsi di quegli scenari.

Anzi, nella complicità o nell'indifferenza della politica, ha conquistato le roccaforti dell'economia del Nord, si è insinuata nel tessuto del paese come un veleno sottile, col quale in troppi hanno imparato a convivere. È parte di un sistema di malaffare e di corruzione che corrode la politica e la democrazia. Anche questa è una strage: di libertà, di diritti, di cittadinanza.
È giusto dirlo oggi, insieme alla folla di ragazzi e ragazze con i quali sto navigando verso Palermo, per ricordare quel che accadde quando loro non erano ancora nati. Io c'ero, posso raccontare loro il dolore attonito di una città che poi si farà rabbia all'apparire dei vertici istituzionali, le lacrime che si confondevano con la pioggia. Paolo Borsellino, un maschera da tragedia greca avvolta in una perenne nuvola di fumo, Giuseppe Ayala ripiegato su se stesso, una pertica che pare sul punto di spezzarsi, Giuseppe Di Lello, il nostro carissimo amico Peppino, piccolo e solo, senza scorta, talmente indifeso che ci stringiamo attorno a lui, quasi a fargli da scudo. E poi quelle parole di Rosaria Schifani, quella specie di lamento funebre contro i mafiosi: «Io vi perdono, ma inginocchiatevi... ma no voi non lo fate... non lo fate», che risuonò nella chiesa di San Domenico come una biblica maledizione.
Carmine Fotia, Falcone raccontato a chi non era ancora nato, Il Manifesto del 23 maggio 2012. 

22 maggio 2016

Contrastare con i fatti

Per contrastare con i fatti il cinismo e i rancori alimentati dalle destre occorre fare dell’accoglienza il progetto di un cambiamento radicale delle politiche e degli assetti dell’Europa; costruendo, a partire dall’iniziativa e dalle esperienze di chi già oggi è impegnato ad accogliere, ma soprattutto da un senso di umanità a cui non possiamo rinunciare, perché ne va della nostra stessa dignità, un programma politico capace di opporre all’economia del debito e all’austerità che ci imprigiona tutti, la conversione ecologica: la creazione di milioni di posti di lavoro per produrre, con meno fatica per tutti e meno sperperi, cose utili in campo energetico, in agricoltura, nell’edilizia, nei trasporti, nella gestione dei rifiuti. Per contrastare i cambiamenti climatici e le devastazioni ambientali, che sono la vera origine delle guerre che spingono tanti esseri umani a cercare rifugio tra noi. Attività che permettano loro anche di organizzarsi e operare per riportare la pace e la sostenibilità nei paesi che hanno dovuto abbandonare. Creando così una Europa capace di includere coloro che sono arrivati, e continueranno ad arrivare tra noi, rivendicando il più elementare e dei diritti: quello di vivere.
Guido Viale, Profughi e migranti sono un'occasione per cambiare radicalmente l'Europa, Il manifesto sardo, 16 maggio 2016.

A coro in manu

Questo componimento è di Forico Sechi di Nughedu San Nicolò paese di Francesco Masala e della dolcissima Franca C., maestra a Ozieri, amica mia trascritta nella variante del mio sardo e al femminile. Una poesia a cui sono affezionata anche perché mi riporta al periodo in cui scoprii tanti poeti minori dell'Otto e Novecento, mai sentiti nominare sin lì, e soprattutto mi porta il ricordo del primo laboratorio di lettura espressiva che, da operatrice culturale alle prime armi, giovanissima, condussi in biblioteca per un gruppo di vivaci bambine di Orani (ricordo Anna Nivola, Karin Viola e Ambra Coi, in particolare), che poi recitarono alcune poesie in sardo e in italiano alla cosiddetta "Festa per gli anziani". Era l'estate del 1984; l'amministrazione comunale inaugurava alcuni nuovi servizi, tra cui l'assistenza domiciliare per le persone anziane che vivevano ormai da sole. Un'ottima iniziativa, ma anche il segno di come tutto nella comunità andava cambiando, nel bene e nel male. Non aveva mai smesso di farlo, in realtà, però del cambiamento ci sono segnali più forti e chiari di altri, diciamo. Ora però sto divagando, e questo non è un post di sociologia.

– Fra', mi parli di Forico Sechi?
– Sì, certo... [e sorride] Mastru Foricu era falegname e intagliatore, era nato nel 1911, la data di morte non la ricordo, ma te lo faccio sapere... Scrivile le date, eh, perché è un poeta meraviglioso, passato nel dimenticatoio, anche in rete non si trova quasi nulla. Pensa che è considerato un innovatore della poesia in sardo a taulinu: ha coniugato la metrica rigida della poesia sarda "classica" con i mezzi linguistici della poesia moderna. A lui si sono ispirati molti altri poeti. Pensa che, negli anni '70, venivano qui alcuni professoroni dell'università di Sassari per discutere di poesia con lui, un vero cenacolo poetico con un falegname che aveva fatto solo qualche anno di scuola elementare. È una bella storia, no?
– Bella, sì, e penso, penso... Però, forse, "professoroni" è meglio evitarlo, a scanso di equivoci.
– No, no, io lo dico veramente! [E ride, e rido anch'io.]
Fammi avere la data di morte, per piacere, intanto io continuo a raccontare...

Alla prima Festa degli anziani di Orani, "A coro in manu" di Forico Sechi di San Nicolò la disse (disse, nota bene, non recitò) a memoria Ambra, una bambina di nove anni, bellissima (cosa lo dico a fare), alta come il padre Lorenzo, occhi neri e grandi come la sua mamma nuorese. La scelsi, la poesia, per la musicalità dei primi versi soprattutto, per la semplicità, perché nominava con affetto la genitorialità e perché trasmetteva fiducia in un sentimento totalmente desueto che credo si possa ancora chiamare bontà. Basta. Ora diche un poesie.

"A coro in manu", naraiat babbu
"A coro in manu", naraiat mama
"Depes esser chin tottu a coro in manu".
E in sa vida mia,
in dolu e in allegria
semper cussu cussizu ap'ammentau.
Peri si in fittianu
s'esser a coro in manu
m'at penas e iffados procurau.

Eppuru so cuntenta,
chin tottu sos iscaddos chi apo tentu,
chi fidele a su narrer sia istada.
Ca sa die chi ando pro no torrare,
tand' apo a narrer a tottus:
custu liberu serro de sa vida
chene rancores; sa die est finia,
ma deo so cuntenta. E si a lontanu
apo de andare, dio cherrer
andare che a semper a coro in manu. 


By Letizia Battaglia

18 maggio 2016

Vero

Guai a scuminssiar col vero,
se ti scuminssi nol te mola più.
Fulvio Bianconi
(Heaven help you if you start up with glass,
if you do, it will never let go of you.)


17 maggio 2016

Viaggio lungo

Viaggio lungo - e lontano. Quando si è Gggiovani (v.) se ne deve fare almeno uno — meglio se molti: India (e Nepal), o America del Sud (che dicesi ♫ Latina): poi quella del Nord, che in fondo è mezza latina anch'essa: New York, Montréal (a raccogliere mele). Con gioia, pur se più casarecce, sono ammesse anche Londra e Amsterdam (per via dei Beatles e delle Vibrazioni v.); o, al limite, la Spagna e la Grecia (ma solo se alla fine si accede a Marocco e Turchia, dove l'acqua fa schifo anche agli orsi, e l'Occidente è alle porte); Parigi invece no, ché è accanto, e non vibra (ma ci si può fare scalo per lavorare a Pizza Manna, e pagarsi l'aereo transoceanico); né Budapest, Lisbona, Praga (non esistono ancora), o Vienna (è borghese...) E almeno due mesi bisogna restare fuori, possibilmente tre, o sette, fino a un anno — pure, si torna sempre. Sempre, e fino. Fino a quando si è tornati per sempre, e non si torna più: perché il lontano si è fatto vicino, e il vicino si è dissolto. Ma questo, è molto dopo i Gggiovani (v., o ri-v.: ma non avevi già v.?), e non ce ne siamo accorti. Gli anni, i luoghi, sono passati, gli appunti del Viaggio lungo si sono persi in un cassetto, il cassetto si è perso chissà dove — e chissà quando. V. anche: Bidi; Buda; Eu tempu pasa; Jicca; Müller (2); Nostalgia; Pest; Rosina; Ya...

Dal mio diz preferito, pp. 138-139
 
Gianni Leone, Ritorno al Mare, 1994

13 maggio 2016

Sciola

La pietra è un elemento a cui gli artisti sardi sono da sempre intimamente legati, perché di pietra è l'isola che li ha generati. Da essa derivano gli artifici più maestosi, dai nuraghi ai menhir, e la sua natura taciturna s'incarna nei personaggi che popolano la grande letteratura del Novecento, i cui volti, spesso, sembrano appunto essere stati scolpiti. Ma se per alcuni le pietre sono inscritte nel mito alimentato dalle tracce imponenti delle antiche civiltà, quelle di Sciola saranno sempre lì a raccontarci il miracolo della loro trasformazione in strumenti plastici e sonori; un artificio, il suo, nato dall'ascolto dei suoni del vento nelle rocce calcaree, dall'osservazione del filo in cui esso vibra, dalle mani forti e delicate del grande scultore che è stato.  
Oggi Pinuccio Sciola è morto a 74 anni e un'intera isola piange il grande artista di San Sperate, e anche l'uomo gentilissimo, la cui casa, con il grande agrumeto dove albergano innumerevoli monoliti lavorati, è sempre stata aperta. Lascia un'isola disseminata da lavori straordinari, che danno il meglio di sé dialogando con i paesaggi solitari e, come lui voleva, con l'universo: menhir, arpe pietrificate, grandi spighe di trachite, semi ricavati da piccoli e grandi sassi, mappe stellari di basalto,  pietre sonore... E non c'è artista più poetico di colui che su una terra in ogni senso durissima lascia pietre che cantano. Grazie Maestro.

10 maggio 2016

L'Alguer

Ma', perpiacere, non fotograf...
Non ti sto fotografando, tranquillo.
    CLIC! 
Bugiarda :-)

8 maggio 2016

Funes

"Giungo, ora, al punto più difficile del mio racconto; il quale (è bene che il lettore lo sappia fin d’ora) non ha altro tema che questo dialogo di mezzo secolo fa. Non tenterò di riprodurre le parole, ormai irrecuperabili. Preferisco riassumere con veracità le molte cose che Ireneo mi venne dicendo. La forma indiretta è remota e debole; so che sacrifico l’efficacia del mio racconto; lascio al lettore d’immaginare i frastagliati periodi che m’incantarono quella notte.
Ireneo cominciò con l’enumerare, in latino e in spagnolo, i casi di memoria prodigiosa registrati dalla Naturalis Historia: Ciro, re dei persiani, che sapeva chiamare per nome tutti i soldati del suo esercito: Mitridate Eupatore, che amministrava la giustizia nelle ventidue lingue del suo impero; Simonie, inventore della mnemotecnica; Metrodoro, che professava l’arte di ripetere fedelmente ciò che avesse ascoltato una sola volta. Con evidente buona fede, si meravigliò che simili casi potessero sorprendere. Mi disse che prima di quella sera piovigginosa in cui il cavallo lo travolse, era stato ciò che sono tutti i cristiani: un cieco, un sordo, uno stordito, uno smemorato. (Cercai di ricordargli la sua esatta percezione del tempo, la sua memoria dei nomi propri, ma non m’ascoltò). Per diciannove anni aveva vissuto come chi sogna: guardava senza vedere, ascoltava senza udire, dimenticava tutto, o quasi tutto. Cadendo, perdette i sensi; quando li riacquistò, il presente era quasi intollerabile tanto era ricco e nitido, e così pure i ricordi più antichi e più banali. Poco dopo s’accorse della paralisi; la cosa appena l’interessò; ragionò (sentì) che l’immobilità era un prezzo minimo; ora la sua percezione e la sua memoria erano infallibili.
Noi, in un’occhiata, percepiamo: tre bicchieri su una tavola. Funes: tutti i tralci, i grappoli e gli acini d’una pergola. Sapeva le forme delle nubi australi dell’alba del 30 aprile 1882, e poteva confrontarle, nel ricordo, con la copertina marmorizzata di un libro che aveva visto una sola volta, o con le spume che sollevò un remo, nel Rio Negro, la vigilia della battaglia di Quebracho. Questi ricordi non erano semplici: ogni immagine visiva era legata a sensazioni muscolari, termiche ecc. Poteva ricostruire i sogni dei suoi sonni, tutte le immagini dei suoi dormiveglia. Due o tre volte aveva ricostruito una giornata intera; non aveva mai esitato, ma ogni ricostruzione aveva chiesto un’intera giornata. Mi disse: – Ho più ricordi io da solo, di quanti ne avranno avuti tutti gli uomini messi insieme, da che mondo è mondo –. Anche disse: – I miei sogni, sono come la vostra veglia –. E anche: – La mia memoria, signore, è come un deposito di rifiuti –. Un cerchio su una lavagna, un triangolo rettangolo, un rombo, sono forme che noi possiamo intuire pienamente; allo stesso modo Ireneo vedeva i crini rabbuffati d’un puledro, una mandria innumerevole in una sierra, i tanti volti d’un morto durante una lunga veglia funebre. Non so quante stelle vedeva in cielo. ..."