26 settembre 2015

Necessità, orizzonte

[Leggendo Le ragazze sono partite, un bellissimo libro di Giacomo Mameli derivato da una raccolta di fonti orali, con una buona struttura narrativa, che affronta il tema dell'emigrazione femminile sarda nel dopoguerra.]
L'immagine delle ragazze che, soprattutto a partire dal '45, lasciano i piccoli borghi natii dell'isola e si incontrano prima sul treno, poi sulla nave e poi ancora sul treno, mi evoca gli uomini e le donne in cammino dei romanzi di Saramago. Tantissimi, insieme, chi a piedi, chi su un carro. Non si conoscono, prima di incamminarsi, si conosceranno camminando insieme [omaggio ad A.]. Ma le moltidudini in viaggio non sono soltanto dei romanzi, come sappiamo, e non sono soltanto di ieri: pensiamo all'oggi, a quei viaggi a volte simili a deportazioni, e non dimentichiamo mai di illuminarli con la nostra capacità di leggerli con tutta l'umanità che ci è rimasta. Nessuno viaggia per viaggiare, tutti viaggiano per necessità. Ma nei loro cammini avvertiamo ancora, forse per l'ultima volta, come le cause e gli effetti possano confondersi, e come la necessità che spinge a viaggiare possa anche essere, forse, soltanto e ancora quella del viaggio: chi può affermare che nel corpo di quel ragazzo di vent'anni (presumibilmente...) o di quella ragazzina di 16 (...) trovati morti in mare non fosse racchiuso anche un "sogno"?... Ma anch'io mi soffermo innanzittutto sulla necessità primaria, perché la divagazione sul tema del viaggio porta troppo lontano: al discorso sulla libertà della scoperta, ad esempio, al bisogno naturale di allargare il proprio orizzonte, e, dunque, al discorso sulla libertà, che via via, forse senza che ne siamo totalmente consapevoli, oggi è diventato un lusso proibito, tanto da apparire addirittura "reazionario"... 
Così, per quanto riguarda l'influenza dell'antico bisogno umano di viaggiare nella decisione di emigrare, è senz'altro più opportuno ricordare la lezione di Nereide Rudas (L'emigrazione sarda, 1974), accolta anche da Maria Luisa Gentileschi in Il bilancio migratorio, pubblicato nel 1978. Entrambe le studiose osservano che se da un lato è corretto tenere conto che nel processo emigratorio confluiscono componenti psicologiche e sociali, dall'altro è giusto riaffermare che non per questo l’emigrazione sia un atto di libera scelta. Pertanto è giusto che si riconosca nella situazione di base della migrante o del migrante un bisogno "aperto", ma se anche tale bisogno non è necessariamente riconducibile a una pura spinta economica resta il fatto che, a monte di tali motivazioni e nel quadro entro cui esse si collocano, vi è una condizione generale di arretratezza e di insufficienza dei contesti di partenza, che non permette il soddisfacimento del bisogno stesso, non consentendo in ultima analisi, al migrante o alla migrante di autorealizzarsi nel proprio luogo di origine.

Concretamente, per stare al libro che mi ha spinto a scrivere questo post, cos'è che ha spinto tante, tantissime giovani donne, a volte ancora bambine (coraggiosissime bambine), a varcare per la prima volta il mare, lasciando i paesi dell'infanzia e la propria famiglia? Scrive Mameli, a p. 68: «Nell'isola e altrove, in Abbruzzo e in Sicilia per il lavoro femminile non c'era posto». La Fiat a Torino l'avevano fatta per dare lavoro ai maschi; così gli pneumatici della Pirelli, le acciaierie di Taranto e Terni, i cantieri navali di Monfalcone e La Spezia, le miniere della Francia e del Belgio, e così anche le miniere sarde di carbone, «dove i maschi morivano di tumore nero. [...] Il lavoro è sostantivo maschile»: le donne sarde e le altre sparse nel Sud erano destinate solo ai fornelli e a lavare panni, quasi sempre senza compenso quando se ne restavano nei paesi di nascita. «Fatica dovuta, scritta nei libri sacri. Solo per poche figlie di ricchi c'era una cattedra in qualche scuola. Le figlie dei poveri – se volevano vedere soldi – dovevano solo partire. E le ragazze partivano. I paesini restavano vuoti.»

Perché partono, innanzittutto, le ragazze di cui parla questo libro? 
Partono perché sono povere. 
Cosa "sognano" le ragazze dei racconti reali tessuti in questo libro? 
Vogliono guadagnare il denaro che gli consenta di aiutare la famiglia: aggiustare il tetto della casa natale, aiutare un fratello a rifarsi un gregge rubato, sfamare e vestire le sorelle più piccole, poter curare un familiare malato, aiutare la famiglia a uscire da situazioni di indigenza o quasi. Ma ambiscono anche a fare una vita diversa, a conoscere altro che non sia il paese, le campane della chiesa, le capre, i maiali, il solito povero cibo. Ambiscono anche alla libertà dal rigido controllo paterno o dal controllo sociale tout-court; ambiscono a crescere libere, a emanciparsi, andando a fare le serve in terra anzena
Sembra un paradosso, vero? Non lo è, o almeno, dagli esiti spesso edificanti della loro emigrazione, di cui nel libro sempre si dà conto, non lo è stato. 
Ciò detto, cosa vanno a fare le ragazze in città? Vanno a servire in casa delle famiglie benestanti, cioè a fare le tzeràccas. E quando va meglio, cioè quando sono trattate civilmente e non accolte subito con “tu sei la mia serva”, come accade a Pietrina, cosa vanno a fare? Vanno a fare le domestiche. Da tzeràccas – parola sarda che deriva dal greco antico, e significa serva – all'italiano domestica, che a sua volta viene dal latino domo, e dice di colei che si prende cura della casa e, dunque di chi la abita; e nelle due differenti parole per designare sostanzialmente la stessa attività, c'è una mobilità di suono, ma anche di senso, che in primis passa nella muta richiesta di rispetto del proprio lavoro. 
Dunque vanno a lavorare come come collaboratrici famigliari o colf, come si direbbe oggi, a casa di gente ricca e anonima, o anche in case importanti: Giovanna Maretta, ad esempio, che aprì la strada dell'emigrazione femminile a Perdasdefoghu, suo paese natale, partì nel 1917, a 14 anni, e rientrò nel 1945. Lavorò nella casa romana di Edda Ciano, la moglie del ministro Galeazzo Ciano, genero di Benito Mussolini, «per questo, sbagliando di grosso – scrive Mameli –, al paese la chiamavano sa seràcca de Mussolini». Ma erano le malelingue ad appellarla in quel modo, perché Maretta, tornata al paese signora», in realtà era anche un po' invidiata, perché era cambiata, era diversa, e il contrasto con le ragazze che erano rimaste lì era troppo evidente. Portava la sciarpa di seta, lunghe collane, il rossetto, mentre le altre ragazze di Foghesu avevano lo scialle color caffé e rossetto «mai visto». 

Delia, della seconda ondata migratoria femminile, parte per Roma nel 1968, ha 15 anni appena compiuti, aveva appena ultimato le scuole medie, le piaceva studiare, le piaceva il teatro, era intelligentissima e curiosa, tant'è che pure così piccola e piena di malinconia (i primi giorni piangeva sempre e pensava ai genitori rimasti soli, seduti davanti al camino «con pochi legnetti») restò incantata dalla parlata italiana, ed ebbe anche fortuna: trovò lavoro come baby sitter presso i Kezich-De Manzolin, ossia a casa del già affermato critico cinematografico Tullio Kezich, dove fu rispettata e anche voluta bene, come se ne può e se ne deve volere a una ragazzina. Era poco più di una bambina, infatti, e quei signori, che evidentemente erano persone per bene, si presero a loro volta cura di Delia, facendole intraprendere anche un persorso di crescita personale: patente a 18 anni, corso di stenodattilografia, Kezich che le fa battere a macchina i suoi articoli sul cinema destinati al Corriere della Sera. Tant'è che, quando Delia trova un vero e proprio lavoro in un centro meccanografico, continua a vivere in casa dei Kezich; esce alle sette e mezza del mattino, rientra alle cinque del pomeriggio, e a partire da quell'ora sta con il piccolo Giovanni. Poi arrivò il lavoro in banca, uno stipendio vero, i progetti per un vero futuro...

C'è la storia di Francesca Zou, alias Cichedda di Nughedu San Nicolò, alunna di una maestra degna rappresentante di quella che Albino Bernardini in quegli stessi anni battezzò come La scuola nemica: veniva infatti puntualmente pestata in classe. Così, dall'età di sette anni, Cichedda preferisce fare le commissioni in casa di Cicìta Tanda, e poi serva malpagata, sino a quando, informata che i bigliettoni rossi da diecimila lire si potevano trovare solo varcando il mare, decide di partire. E Parte. Tra l'altro è una delle rare ragazze che lo fa con una valigia vera (un topos dell'emigrazione che Mameli non trascura di descrivere), comprata in una merceria di Ozieri. Le altre ragazze del libro, alla partenza, solitamente mettevano quel minimo di abbigliamento e biancheria posseduti dentro una federa bianca, insieme a un po' di pane e formaggio per il lungo viaggio. Cichedda ebbe un'esperienza di lavoro anche interessante sotto il profilo dell'arricchimento culturale, perché conobbe il mondo del cinema romano di quegli anni strepitosi per il cinema italiano: il figlio dei suoi datori di lavoro era stato scelto a far parte di un cast fortuitamente, mentre si trovava a passeggio con Cichedda il un parco della città , e quindi la ragazza prese ad accompagnare il piccolo Valerio a Cinecittà, dove Monicelli girava Deserto rosso... 

Toccante la storia di Carrùla, serva nelle campagne tra l’Ogliastra e il Sarrabus dall’età di otto anni …

Curiosa la storia di Cecilia Melis, domestica a Cagliari dall'età di 12 anni, che emigra a Roma per lavorare in casa di De Quirico. Ma naturalmente non sa chi sia, e raccontando di sé alle compagne che incontrava nelle ore libere alla stazione Termini (ribatezzata dalle emigrate "Stazione Sardegna") diceva di prestare servizio «a casa di un vecchio che dipinge»...
Sophie Calle, Voir la mer, 2011

19 settembre 2015

La grande casa

Era tornata a Nascar spinta dai fantasmi che le erano rimasti sempre accanto, nonostante la lontananza dalla terra che li aveva generati; guardarli in faccia avrebbe fatto meno paura, pensava: li avrebbe addomesticati.
Così ora saliva con circospezione le scale della grande casa, ritrovando frammenti di sé, meravigliandosi del proprio stupore.
Sentiva la suggestione del tempo raccolto, dilatato dal silenzio, mentre i pensieri fluivano piano e calmi.
Respirava l'aria gelida delle stanze.

Nelle pareti i pochi quadri e le tante vecchie foto incorniciate evocavano ricordi, scavavano cunicoli, trovavano acque carsiche.
Squarci.
Quando sentì arrivare l'antica vertigine aprì con forza la grande finestra del terzo piano. Da lì poteva abbracciare con lo sguardo l'intero borgo, esclusa la parte a ovest, con la collina sventrata dalle cave di steatite.
E da lassù vedeva correre il labirinto dei vicoli, e i tetti e i campanili di tredici chiese.
Al limite del borgo si alzavano le pareti delle colline che avevano linee come grandi rilievi caucasici.
Ombre e sassi, erba e cielo.
Si faceva trasportare dal sogno cogliendo piccole meraviglie tra le cose conosciute, come se le vedesse per la prima volta. Ma c'era qualcosa che quasi metteva paura. I paesaggi solcati dai muretti di pietra, le macchie, i monti dai profili d'inferno, l'aria fredda, il profumo dei venti, i cobalti del cielo, le voci spagnole.
Scese per strada per riuscire a fermare la vertigine.

Passi.
Visi bellissimi.
Il suono dolce, talvolta un po’ brusco, del saluto.
– Qui sei?
– (Credo di sì…)
– Bentornata.

Bastiana Madau, Nascar, Poliedro, Nuoro 2003, pp. 65-66.
Luigi Ghirri, 1987 (Fototeca Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia) 

6 settembre 2015

Seneghe — in ricordo del Capudanne de sos poetas, edizione 2015


Gretel

gli anni in cui non fiuto il tuo odore
la vita puzza
la luce taglia i volti di netto

anni a guardarti da fuori – da dentro
la bolla del lutto

ma anche è una dura osservanza
il tuo culto

ma è anche da matti resistere
nel tuo vero odore squisito

da matti abitare
nel tuo marzapane celeste


Stefania Portaccio

5 settembre 2015

Nessuno può fermarlo

Dimenticavamo le distanze fra le stelle e comprendevamo d’essere al centro di un mare che si faceva di giorno in giorno più popolato. Non potevamo fermare il ciclo dell’uomo, nessuno può fermarlo. Dovevamo incontrare gli altri uomini, per crescere. L’incontro ha un costo, pagarlo è inevitabile. 
Passavamo sulla terra leggeri, p.78.
(Ricordando Sergio Atzeni [Capoterra, 14 ottobre 1952 – Carloforte, 6 settembre 1995] a vent'anni dalla sua scomparsa.)

1 settembre 2015

Il nord, la volontà, la speranza – paesi senza frontiere

Gli anni, i secoli e le epoche che si susseguono,
Tutto si precipita verso il caldo, lontano dai geli e dalle tormente.
Perché gli uccelli volano verso il Nord
Se a loro è destinato solo il Sud?

Non hanno bisogno né di gloria né di grandezza.
Ecco, sotto le ali finirà il ghiaccio
E troveranno la felicità di uccelli,
Ricompensa del volo audace.

Non siamo riusciti né a vivere, né a dormire?
Cosa ci ha spinto verso la cresta dell’onda?
Non abbiamo potuto ancora contemplare la luce.
La luce non ha prezzo!

Silenzio. Solo i gabbiani sono come bagliori.
Le nostre mani li nutrono di vuoto.
Ma la nostra ricompensa per il silenzio
Sarà necessariamente il suono.

Da tempo abbiamo solo sogni bianchi,
Tutte le altre sfumature le hanno spazzate via le nevi.
Siamo rimasti accecati è buio da tanto biancore.
La linea nera della terra ci restituisce la vista.

Dalla nostra gola scaturisce il silenzio,
La nostra debolezza cresce come un’ombra.
E la ricompensa per le notti di disperazione
Sarà l’eternità di un giorno polare.

Il nord, la volontà, la speranza paesi senza frontiere,
Neve senza fango, come una lunga vita senza menzogna,
I corvi non ci caveranno gli occhi dalle orbite,
Perché qui non ci sono corvi.

Chi non ha creduto alle profezie cattive,
Non si è disteso sulla neve neanche per riposare un attimo,
Come ricompensa per la solitudine
Avrà l’incontro.

"Il silenzio bianco" [1972], in Vladimir Vysotsky, 19 canzoni; traduzione di Silvana Aversa; introduzione di Gino Castaldo, presentazione di Amelia Rosselli, Stampa Alternativa, s.l., 1992, p. non num.

Tranne

Le navi si fermano – poi salpano,
Ma tornano tra le intemperie...
Non passerà un anno e io ricomparirò
Per ripartire ancora per un anno.

Tornano tutti, tranne i miei migliori amici,
Tranne le donne più amate, le più fedeli.
Tornano tutti, tranne quelli di cui si ha più bisogno.
Io non credo al destino e in me ancor meno.

Ma che voglia di credere che non sia così,
Che tagliarsi i ponti alle spalle sia fuori moda.
Io certamente tornerò, insieme agli amici e avvolto ai sogni.
Io certamente canterò e non passerà un anno.

"Le navi" [1966], in Vladimir Vysotsky, 19 canzoni; traduzione di Silvana Aversa, introduzione di Gino Castaldo, presentazione di Amelia Rosselli; Stampa Alternativa, s.l., 1992, p. non num.