22 marzo 2010

La voce esaltata di un'uruguaiana con una vocazione da greca*


Carla Rippey , El uso de la memoria

Io sono l'amica di tutti i messicani. Potrei dire che sono la madre della poesia messicana, ma forse è meglio non dirlo. Io conosco tutti i poeti e tutti i poeti conoscono me. Dunque potrei anche dirlo. Potrei dire che sono la madre, e sono secoli che qui tira una bruttissima aria, ma anche questo è meglio non dirlo. Potrei dire, per esempio, di aver conosciuto Arturito Belano quando aveva diciassette anni ed era un bambinone timido che scriveva opere di teatro e poesia e non sapeva bere, ma in qualche modo sarebbe una ridondanza, e a me hanno insegnato (me l'hanno insegnato con la frusta, con una bacchetta di ferro) che le ridondanze sono di troppo e che deve bastare il semplice argomento. Quello che di sicuro posso dire è il mio nome. Mi chiamo Auxilio Lacouture e vengo dall'Uruguay, da Montevideo, anche se quando mi vanno i fumi alla testa, quando mi prende lo sghiribizzo di dire stranezze, dico che sono charrúa, che in realtà sarebbe lo stesso, ma poi lo stesso non è, visto che finisce per confondere i messicani e di conseguenza gli altri latino-americani. Ciò che realmente importa è che un giorno arrivai in Messico senza sapere bene perché, né a fare cosa, né come, né quando. Arrivai in Messico, nel DF, il Distrito Federal, nell'anno 1967 o forse nell'anno 1965 o 1962. Non mi ricordo più le date né le molte peregrinazioni, l'unica cosa che so è che sono arrivata in Messico e non sono più andata via. 

Roberto Bolaño, Amuleto, traduzione di Pierpaolo Marchetti, Arnoldo Mondadori, Milano, 2001 (incipit).  

* Così lo scrittore cileno definisce la protagonista e voce narrante di Amuleto in un'intervista ora raccolta in Roberto Bolaño, Tra parentesi, traduzione di Maria Nicola, a cura di Ignacio Echevarría, Adelphi, Milano 2009. Ritroviamo il personaggio della poetessa Auxilio Lacouture anche nel bellissimo I detective selvaggi, pubblicato in Italia da Sellerio.

16 marzo 2010

Zuppa di pesci per chi se la mangia


Titolo parallelo: Egocentrisme
Sottotitolo del t.p.: Dedicato ad Alberoni e a chi non se lo mangia
Con S.F., D.D.M., A.N. (incinta di 8 mesi) e suo marito E., C.P., B.F. e un po' defilato il filmaker F.B. Con la partecipazione straordinaria di E.M., romana, provvisoriamente cagliaritana, ricercatrice di se stessa.
Casa di A. e S., festa del loro secondogenito, il geniale dodicenne N. Altresì i grandi festeggiamenti sono dedicati al rinnovato ingresso in società del miracolato trentanovenne M., sopravvissuto allo spaventoso incidente accadutogli nel porticciolo di Santa Maria Navarrese mentre riparava il pneumatico di un muletto (primi di marzo del 2003: il pneumatico gli è esploso sul viso e ci ha rimesso un occhio; "Poco male", dice ora vivo e contento a noi che lo abbiamo pianto come morto per tre settimane di coma stazionario: 1° intervento al cervello durata 7 ore, 2° intervento di massoplastica, sofferenze feroci). Si è salvato, il vecchio lupo di mare, e ora siamo tutti qui a baciarcelo un’ora sì e l’altra pure. M. è molto bello anche con gli occhiali, ma sta pensando a una benda nera come suo fratello Corto, dice; P., sua moglie, ha collaborato alla già straordinaria cucina di A. con la preparazione delle cose buonissime che stiamo mangiando in questo momento: una sontuosa insalata con crostacei e molluschi freschissimi, ad esempio, che mi gusto proprio ora, mentre cerco un angolo per prendere appunti… Ci sono tanti amici, e i bambini: le due G. (una è la mia!), B., il mio A., N. e M., la più piccola, figlia di M. e P., dolcezza, serietà e astuzia condensati in 3 anni di vita (a cent’anni piccola!). Su questo paesaggio d’affetto, S., il padrone di casa, abbozza al pianoforte un lieder di Schubert…
– E la ricetta?
– Eccola!
ZUPPA DI PESCI
(S. – fratello di A. e cognato si S., i padroni di casa – qui detta legge! E inizia appunto a dettare gli ingredienti: olio extravergine di oliva, cipolla (chape, in rumeno, dice Alina), aglio, peperoncino. Pesci diversi e freschissimi. Pescatevi alcuni pesci di specie diversa, ordunque, dai crostacei ai molluschi passando per un buon pesce San Pietro, uno scorfano, una gallinella (non una piccola gallina, attenzione) nonché dei pesci a trance (leggere com’è scritto!) che il vostro pescivendolo di fiducia – se non avete in casa un Marco e un Salvatore F.! – saprà sicuramente consigliarvi. Dopo aver fatto “squagliare” le teste dei pesci piccoli in un soffritto di cipolla (chape, insiste…), aglio e peperoncino, aggiungere il polpo, il calamaro e le seppie. Annaffiare con vino bianco e salare!
– Alina, com’è in rumeno ‘fidanzati’?
Prieteni, si dice, prieteni
– E ‘nascita’, ‘nascere’?
Nàstere, si dice, nastère
– E ‘noi due siamo fidanzati’?
Ce doi sunt
– …ma è latino!
– …prieteni! Che vuol dire anche ‘quei due sono fidanzati’…
– Grazie. Dolores, e tu?…
– Io cosa?
– Scusate, scusate, ma che ricetta è?
– È la ricetta di una ija de puta!
– No, dai, è la ricetta di una puta de verano…
– Avanti con la preparazione della zuppa!
– O.K.… Appena i pesci piccoli si fràzicano…
– ?… Come si dice frazicare in italiano?
– Boh!
– Andiamo avanti.
Appena i pesci piccoli si fràzicano, posare nel tegame i pesci dal più grande al più piccolo. Coprire di polpa di pomodoro e circa 20 minuti dopo aggiungere i molluschi e i crostacei. Ricordare di schiacciare la testa dei granchi con un piccolo martello al centro del carapace. Lasciate riposare per 4 o 5 ore e buon appetito!
– Aspetta!
Fondamentale: mescolare solo la base della zuppa, una volta posato il pesce non toccare più il tegame se non per servire nei piatti, se non volete mangiare solo le spine! Poi passate le teste al setaccio grosso, ché così facendo insaporisci tutta la zuppa, e ricordati che la testa insaporisce! E ricordati anche di aggiungere – per lo stesso motivo – il fegato di un pesce, uno qualunque, ma NON DI MERLUZZO che nella zuppa non ci sta a far niente, il merluzzo…
– Scusate, potete andate più piano, per favore?
– Sì, scusaci tu.
– Intanto perché qualcuno non prepara una caipiriña?… Annamaria, abbiamo ancora del ghiaccio?
– Sicuramente, ma vado a vedere…
– Grazie, bella.
– Sei la più bella davvero, mica per dire!
– Come la chiamerete la bambina?
– Io la vorrei chiamare Alina, ma Alina è già lei…
– Tu che scrivi eh? Vedi che tu devi dettare la ricetta, NON scriverla.
– Niente.
– Se non mi fai leggere la smetto con questo giochino. Dai qua, fammi vedere…
– E vabbe’, te lo leggo: “B. stasera ha indossato delle calze traforate che sono un’istigazione a delinquere.”
– E vabbe' lo dico io. E tu? Cos’è quel bigliettino?…
– “Le calze di B. sono traforate come le grate che separano i sussurri delle suore di clausura dai loro desideri.”
– Quanto siete scemi… Ehm, scusa, volevo dire ‘benvenuta’… benvenuta in quest’isola, stelli’.
– Grazie… ma tanto tra un po’ me ne vado, credo…
Elena, Roma, 8 ottobre 1964
Vivo qui per vivere, e capire dove voglio vivere. A Cagliari abito in corso Vittorio, 203. Mi alzo e bevo l’acqua. La prima cosa che vedo quando esco di casa è “Patrizia e Robero Alimentari”. Di Cagliari mi piacciono gli aironi che volano di notte in formazione a V… La cosa che meno mi piace di Cagliari sono i cagliaritani. La cosa che mi piace di meno di meno dei cagliaritani è il tono indolente e lagnoso della voce (che io ora sto assumendo…). Però questo gioco mi piace.
Ok, ripartiamo?… Una precisazione sul pesce a trance (da leggere, ecc.): la morte sua è la cernia a… (scusate, non arrivo a capimme cosa ho scritto a mano dal foglietto dove sto ricopiando) che assorbe tutti i sapori della zuppa, e quando ne mangi una fettina ti stai mangiando tutti i sapori compreso quello della cozza. Teste passate al setaccio + il fegato di un pesce, escluso il merluzzo, dicevamo…
– Scusa, cosa sono le capesante?
– Sono delle conchiglie bivalve giganti.
– Bivulve?!
– Scemo.
– Ostriche, comunque, no?
– Sì, ostriche giganti, buone gratinate con mollica di pane passato nell’uovo appena di prezzemolo (sempre crudo, cioè mai e poi mai cotto, nel pesce…) e basta.
– Hai finito di preparare la caipiriña?
– È cubana?
– Brazil.
– Mmhh è deliziosa… Come l’hai fatta?
– Scrivi: zucchero di canna, ghiaccio tritato con il pestello…
– Dai, ma io dopo la zuppa di pesci preferisco il mirto!
– Ah, si? E come lo fai Carme', come lo fai, che a me esce sempre un po’ blando?
– Asco’… io mi sono rotta i coglioni di…
– Ma come parli?!
– Asco', io mi sono stufata di far macerare il mirto nell’alcol, e di perdererne il 70%… Meglius abbundare, e il mio consuocero…
– Il tuo?!
– Il mio ex consuocero. Mi ha regalato le bacche…
– Dove le ha raccolte?
– … bacche del Mandrolisài. Le ho fatte bollire con acqua…
– Acqua cosa? Acqua di dove?
– …acqua di Monte Spada… bollire per 20 minuti; ho scolato con un colapasta…
– Si dice così?
– Sì… ho scolato con un colapasta, poi – se sei tu a fare – misuri la quantità di liquido e proporzioni… fai la proporzione liquido più zucchero più alcol, in queste quantità… Scrivi:
IL LIQUORE DI MIRTO
1) 1 lt di liquido (essenza di mirto + acqua); 2) 300 gr. di zucchero; 3) 750 gr. di alcol puro…
– Mi sembra una bomba questa roba…
– No, no, guarda: meglio esagerare che poi, semmai, ti vien meglio se provi a scalare: io ho iniziato con un litro di alcol, ma i miei non hanno gradito, “troppo alcol” hanno detto, al che ho diminuito, per cui ho rifatto le proporzioni e all’essenza ho aggiunto più acqua.
– Ho capito: tu consigli di darsi delle possibilità, insomma?
– Esatto.
– Grazie. Però… questa caipiriña è deliziosa… Subito la ricetta!
– Certamente, niña, scrivi!…
CAIPIRIÑA
Zucchero di canna, ghiaccio tritato con il pestello, spicchi di…
– No, cacchio, aspetta… Pestello cosa? E se non c’è? E se siamo… che ne so… in una grotta di Cala Luna, ad esempio, e fuori si schiatta di caldo che è l’ora della Mamma del Sole e il pestello nella borsa frigo non l’abbiamo messo?
– No problem. Va bene anche il fondo di una caffettiera Lagostina da quattro… o Bialetti… o Stella…
– Un sasso bianco della còdula, può andare?
– Geniale! Ricordati di lavarlo con acqua dolce, però, prima di pestarci il ghiaccio…
– Grazie. Andiamo avanti.
– Spicchi di lime (se non c’è accontentatevi del limone) tagliati a dadini. Ripesta ghiaccio con l’agrume; prendi e versa la cachaça…
– E se non non la troviamo?
– A tutto c'è rimedio, tranne al mondo!… Alina, qual è la miglior vodka secondo te?
– Moskòskaja!
– Grazie.
– Dov'ero rimasto... Ah sì, le propozioni: un quarto di vodka; un limone; una vaschetta da 8 cubetti… Insomma che la vaschetta contenga almeno mezzo litro d’acqua, ca tantu su ghiacciu lu depes pistàre.
Ma non si narat ‘ghiacciu’!
Ah! Tenes rejone… si narat àstragu’!
– Senti. A me la zuppa di pesce piace come la servono – e la mangiano – ad Arbatax e in tutta l’Ogliastra, oppure come la presentano a Bosa… Cosa manca? Indovinello!
– IL PANE!
– Il pane!
– Su coccòne!
– Sì, direi che sul piatto, prima di servirci la zuppa di pesce, ci stendiamo una bella e spessa sfoglia di pistòccu ogliastrino o bosano, indifferentemente: sono entrambi pani straordinari.
– E il vino?
– Rosso!
– No, dai, col pesce bisogna bere vino bianco…
– Bisogna?! Chi se ne frega della morale, scusa…
– Rosso!
– Evvai!
ROSSI CONSIGLIATI (scegline uno, massimo due)
Agliànico del Vulture, Venosa;
Ànghelu Ruju, Cantine Sella&Mosca, Alghero;
Kore, (ma anche Perdèra) Cantina Argiolas, Serdiàna;
Corvo di Salaparuta, Sicilia, provincia di Djragusa (ci sembra, e se no cu minchia ce ne fotte);
Brunello di Montalcino, Siena;
Lillovè, più che rosso, nero! Cantine Gabbas, Nuoro;
Àvra, vinu 'e feminas, idem, Nuoro.


F I N E

Una canzone per Bolaño

Patti Smith presenterà al festival Spoken Word di Gijón una canzone dedicata allo scrittore e poeta d'avanguardia della nuova letteratura ispanoamericana Roberto Bolaño, che... ♥!

fonte: http://garciamadero.blogspot.com/

15 marzo 2010

Autotraduzione per un amico italiofono


A cosa serve?
Un lusso porsi simili domande, circondati come siamo da questioni e problemi materiali – a volte anche superflui se messi a confronto con altri ancora che appaiono in un orizzonte più vasto, lontano dal nostro quartiere, dall'isola, e da dove ci arriva una tristezza cosmica per le creature che al mondo sostano in uno stato di enorme sofferenza, patendo fame, soprusi di ogni genere, in mezzo all'infinita guerra.
Ma allora cos'è la poesia in questa specie in questa realtà che, per dirla con Cioran, "ci dà l'asma"? A cosa serve? E non è soltanto una inutile serva?
La risposta a una simile domanda, tempo fa, ha costituito una mia prefazione a un'antologia di poeti minori del novecento sardo. Ma anche lì non ho voluto affatto avvicinarmi – come anche qui – alla poesia sarda in un modo diverso rispetto all’”altra” poesia, e qui ancor di meno desidero ovviamente dire alcunché di filologico. Quel che vedo è che in quasi tutta la poesia in sardo convivono due cose pertinenti la vita attuale (che è ormai iniziata da un pezzo “la vita d’oggi”, anche in Sardegna, eh…): da un lato vi è l'adesione alla modernità e alle possibilità cocrete di una vita in apparenza più "dolce", dall’altro lato vi è la nostalgia per un altro mondo, che resta sempre nascosto, a lato di ogni cosa che materialmente si muove e agisce nel modo di vivere attuale, così come la costituisce e la forma "il progresso": un mondo, quel che intende il poeta, che parla una lingua muta, o «il linguaggio delle cose mute», per dirla con Baudelaire. Per i sardi, in più individualità e opere, la poesia è anche una suggestione di paesaggio immobile, che non cambia con lo scorrere del tempo. Allora, forse, i poeti sono proprio quelle creature che ancora hanno la capacità di intendere (un intendimentu che è ascolto e sentimento) le cose che sono “sotto” a ogni mutamento delle superfici, e di fronte a un mare molto grande essi, i poeti, vanno a fondo, oltre l’increspatura che il vento dà alle onde…
Pietro Mura, di Isili, poeta e artigiano maestro del rame, padre di un altro grande poeta il cui nome è Antonio Mura, per raccontare del suo mestiere scriveva: ippo operaiu de luche soliana (“ero operaio della luce del sole”)… e così fermava l'eterno in seno alla precarietà del movimento delle braccia che forgiano la materia.
E allora la poesia è soltanto questa ricerca di immobilità, di una verità costante, immutabile, che lascia sempre segreto il mistero?
Eugenio Montale, durante la cerimonia del Nobel, disse che lo si stava premiando per aver scritto poesie, cose inutili, ma che non facevano male a nessuno!
Ad Attilio Bertolucci – una voce alta della poesia italiana contemporanea, morto qualche tempo fa a 88 anni – quando stavano per consegnarli il Premio "Flaviano", gli domandarono: "Maestro, a che serve la poesia oggi?". Per tutta risposta raccontò questa storia:
«Dal '39 al '43 sono stato professore in un liceo di Parma. Insegnavo italiano e storia dell’arte, ma insegnavo anche l'antifascismo. Tra in ragazzi della mia classe, ce n’era uno particolarmene intelligente e coraggioso. Per farla breve vi dico subito che questo giovane poi divenne un partigiano e venne arrestato più volte. A un certo punto scomparve e non sapemmo più niente di lui. Alla fine della guerra ci arrivò la notizia della sua fucilazione in  piazza del Duomo, a Mantova, avvenuta nell’inverno del '44. I suoi compagni si erano salvati e avevano consegnato alla madre una sua  lettera, scritta un momento prima di andare a morire. Una lettera bellissima: in quel pezzo di carta blu, aveva trascritto una mia poesia intitolta "Insonnia": Come cavallo / che meridiana ombra impaura / s'impunta il sonno finchè l'alba sbianca l'oriente / allora, stanco, si rimette a trottare / per borgate che si svegliano / davanti a osterie che riaprono / da cui escono voci / e un fresco odore di grappa.
Forse Bertolucci, con questo racconto, ci vuol comunicare che la poesia a qualcosa può servire, no? Qui ha fatto compagnia a un ragazzo, nel momento più tragico della sua vita. Ed è soltanto uno dei suoi tanti valori, questo, che può e deve avere ancora oggi: la poesia serve a confermare la presenza di umanità in un mondo che la nega.
Possiamo anche paragonare la poesia alla libertà di essere al mondo con con dignità.
La poesia è anche una forma di "commercio": parola, quest’ultima, che risulta maggiormente comprensibile nell’accezione francese, lingua nella quale è una parola ambivalente (come nel sardo logudorese), avendo sì un senso economico, ma volendo anche dire "scambio" nel senso del sostare con gli altri per raccontare e raccontarsi. La poesia, allora, mi domando se non sia appunto anche una forma superiore di commercio, uno scambio di doni, di sensibilità, trasmissione gratuita di tesori. La lingua, grascias a Deus (scusate, in italiano non lo so dire), non vale a nulla, non è commerciabile, non si può vendere né comprare, intanto che invece continua a creare quell’altro genere di commercio tra gli individui.
In questo senso intende la sua scrittura poetica Giovanni Dettori – poeta di origine sardo-bittese da tanti anni emigrato in Piemonte – che scrive in italiano (e va bene uguale): un italiano bello, che della lingua madre conserva il suono, il ritmo, o se volete, l’andamento…: Non dire nulla a questi luoghi ascolta / paziente / ascolta una lingua che ignori / raccontano parlano – parlano! – / dentro un mondo muto / una bambina una madre sotto un olmo che stranamente vive / ancora commerciano parole.
Ma "negoziare" (in sardo "commerciare" è negossiare) per raccontare quel modo che sentiamo presente e quasi parallelo ad altri mondi, è come raccontare di un mare troppo grande. E allora i poeti sanno anche che non bastano le parole, una dietro l’altra, come ci insegnano le grammatiche, le sintassi o le altre madri autorevoli. I poeti usano le parole come perle per fabbricare collane sempre nuove e diverse, e i loro grani, toccandosi tra di essi, hanno la capacità di far nascere suoni sorprendenti. E allora vi dico che per me la poesia è dove viene resuscitata la meraviglia dei suoni, è dove si rinnova lo stupore di esser vivi. Perché questo mare troppo grande che è la vita, non bastano le parole del giorno e della notte per poterlo raccontare. E infatti i poeti sono creature che non raccontano soltanto: essi cantano a poesia. Raccontano, cantano, camminano e camminando domandano: cosè la poesia? a cosa serve?
 B.M.

12 marzo 2010

Pomodoro, giallo, mare

Paolo Curreli, acrilico (2007)

"Tentiamo di essere il più possibile giusti con il mondo e con gli altri per essere in armonia perché la vita è labile", ha scritto un amico in una lettera di qualche giorno fa (e mi sembra sia già passato un anno, tanto c'è un prima e un dopo in un troppo breve lasso di tempo)... Ci riflettevo ancora oggi su quelle parole, arrivate, appunto nel triste contesto della perdita di una persona cara, così interna alla nostra storia, ai giorni, e andata via con una serenità di proporzioni incredibili se rapportata alla sofferenza patita negli ultimi mesi, e che sostegno a tutti coloro che l'amavano (l'amano), conforto e anche momenti di felicità ha saputo dare à bout de souffle… Ecco, credo di capire ancora di più, ora, quanto non siano affatto banali o scontate queste parole e quanto invece vere e potenti. Essere il più possibile giusti e in armonia col mondo (così disarmonico)… Il tema è da un miliardo e meriterebbe ben altro che un post su un misero blog, ma desidero lasciarne almeno una piccola traccia esperita.